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Aborto: quando la realtà supera la fantasia

aborto
Fonte: Linkiesta

Il recente caso di una ragazza sedicenne della provincia trentina (incinta a seguito di una relazione con un ragazzo albanese appena diciottenne) che aveva deciso di portare a termine la gravidanza contro la volontà dei suoi genitori, i quali però si sono rivolti al Tribunale dei minori per costringerla ad abortire, spiazza i benpensanti e rimette in discussione qualsiasi ragionamento troppo legato a ideologie, religiose o laiche che siano. Stando alle ultime notizie, la ragazza, alla fine, dopo il colloquio con il giudice, pare abbia deciso di abortire. “In totale autonomia” - sottolinea il padre. Ma se così fosse stato sarebbe uscita la notizia sui giornali? Si sarebbero rivolti i genitori al giudice?
Questa vicenda non deve riaprire la contrapposizione ideologica tra “buoni” e “cattivi” sulla revisione della legge 194, ma deve farci riflettere come i tempi cambino e come le leggi vadano, per tempo, aggiornate. Cos
ì come non era giusto, un tempo, ordinare per sentenza a una donna di non abortire, solo sulla base di motivazioni religiose, allo stesso modo, oggi, non si può, al contrario, stabilire un aborto per sentenza, contro la volontà della diretta interessata, sulla base di fattori rigidamente socio-economici. Se, a suo tempo, gli estensori della legge 194 fossero stati più lungimiranti e non si fossero fatti condizionare dalle logiche ideologiche contrapposte, oggi un caso come questo non sarebbe finito nelle aule giudiziarie, spaccando ancor di più una già provata famiglia italiana.
A dire il vero, quando la legge 194 fu approvata, nel lontano 1978, questo problema era stato posto, eccome. Non tanto dai legislatori, n
é dai due fronti ideologici contrapposti nel paese, e neppure dalla stampa. Il contenuto dell'articolo 12 della legge dava vita ad un interessante dibattito, relegato però ai margini, tra gli addetti ai lavori. Sulle pagine dei giornali i protagonisti si dividevano solo su contrari e favorevoli all'aborto (con un'evidente forzatura: chi può essere favorevole all'aborto per principio?), tutt'al più alla legge. Erano, dunque, gli esperti di diritto a porsi la questione che oggi si ripropone, tale e quale, nel caso della ragazza trentina.
Secondo Massimo Cesare Bianca ("Nuove leggi civili", n. 6, 1978) esisteva un grande problema di giustizia sociale rimasto fuori dalle finalit
à della legge: alla donna, maggiorenne o minorenne che fosse, non veniva affatto garantita la libertà effettiva di non abortire, ma solo quella di abortire, in quanto non veniva sviluppato, in alcun modo, un adeguato welfare familiare, cioè, accanto alla legge, un concreto strumento di partecipazione solidaristica. A differenza di quanto avveniva, da tempo, in altri paesi europei. Va detto infatti che in Francia, per esempio, esisteva già dagli anni Trenta una solida politica di sostegno alla famiglia e alla maternità, basata sul meccanismo degli assegni familiari, del quoziente familiare e dei servizi per la gravidanza. Oppure in Svezia, dove, già nel 1978, quando veniva approvata in Italia con un incredibile ritardo la 194, una donna poteva scegliere o l'aborto o l'assistenza medica e sociale, con un contributo mensile fisso per i primi tempi e con la possibilità data al padre o anche al partner di essere tassato sullo stipendio solo dal 6 al 12% fino a quando il figlio non avesse compiuto i 18 anni. In Italia, invece, la polemica dei cattolici intransigenti del Movimento per la vita (che avrebbe portato avanti addirittura i referendum per abrogare la 194) si soffermava sul fatto che l'art. 12 prevedesse addirittura la possibilità di abortire per una donna minorenne, consigliata dai genitori o da un giudice tutelare. Dall'altro lato, i movimenti femministi e radicali si battevano per una ancora maggiore liberalizzazione dell'aborto: se una ragazza avesse voluto, invece, portare a termine una gravidanza, rivendicando quella stessa libera volontà di scelta, in quanto essere umano e in quanto donna, non sarebbe stato anche quello un diritto acquisito dell'individuo e, come tale, da tutelare?
A interrogarsi su queste problematiche di alto valore etico e sociale non erano dunque i grandi partiti (Pci, Psi e Dc), troppo presi a fare accordi in una fase di emergenza nazionale, a pochi giorni dall'omicidio di Moro, n
é la Chiesa, troppo chiusa a riccio in una visuale ormai anacronistica, superata dalla ormai avviata secolarizzazione della società italiana, né i movimenti radicali e femministi, ma piuttosto alcuni intellettuali, pochi studiosi, gli esperti.
Massimo Dogliotti ("Giurisprudenza italiana", n. 11, 1982), dopo che un giudice di Cuneo aveva sollevato l'illegittimit
à costituzionale della 194 per la sua disparità di trattamento tra donna di minore e donna di maggiore età, sottolineava come la legge, in realtà, non tenesse abbastanza conto della posizione giuridica della donna minorenne che veniva mantenuta, nella scelta, in una posizione subordinata rispetto ai maggiori di età, cioè di genitori, giudici, medici. Francesca Giardina e Barbara Crisalli facevano notare (rispettivamente su "Nuove leggi civili", n. 6, 1978 e su "Giustizia civile", n. 6, 1982), che nella legge e nelle successive sentenze costituzionali non si era tenuto conto della nuova posizione giuridica del minore nella società moderna, garantita e valorizzata da decisioni prese a livello europeo. Era necessario che la ragazza minorenne, da oggetto di diritti o mero destinatario di norme, vedesse riconosciuta sempre più la sua personalità e con essa la possibilità di esplicare una propria autonoma determinazione, da mettere alla prova proprio in particolare e delicate scelte morali e civili personalissime, come era quella sull'interruzione o meno di una gravidanza.
Queste idee venivano affermate pi
ù di trent'anni fa. Ma nessuno, nel frattempo, pare essersene accorto, se non oggi che emerge alle cronache un drammatico e delicatissimo caso singolo. Come sempre, insomma, all'italiana, con un modo di procedere che mette in evidenza sempre più il distacco tra classe politica, indotta a legiferare solo sulla base di interessi di parte (chiesa, poteri forti), che si disinteressa degli effettivi problemi e bisogni della gente, e il paese reale. Allora come oggi, le questioni serie vengono sollecitate e affrontate solo da pochi esperti, singoli studiosi, qualche operatore del settore, mentre la politica appare sempre più a rimorchio della realtà, portata a intervenire solo a seguito dell'esplodere di problemi enormi. Questo vale in economia, così come nella cultura e nella società.
Per fortuna, pare che la vicenda non abbia suscitato le reazioni a cui eravamo abituati: il fronte cattolico intransigente, il Movimento per la vita, i giornali cattolici, la Chiesa in via ufficiale, pare, finora, non abbiano strumentalizzato la cosa per riaprire la battaglia infinita contro la legge. Questo
è l'unico aspetto positivo di questa triste vicenda. Che comunque, alla fine, ha segnato una sconfitta, perché ha evidenziato che la funzione dissuasiva nei confronti dell'aborto da parte della legge, non ha funzionato.
Una legge, in generale, conta soprattutto per il suo significato sociale, cio
è per l'impatto che assume nella vita concreta dei cittadini. La 194 ha dimostrato di essere una buona legge, ha ridotto la piaga degli aborti clandestini, ha contribuito alla diminuzione degli aborti in generale, ha dimostrato di saper tener conto anche delle ragioni degli obiettori di coscienza. Ma non è, con tutta evidenza, una legge perfetta. Sarebbe bastato aggiungere, nella legge 194, che la decisione di abortire o meno deve essere presa, in assoluta libertà di giudizio, dalla donna, senza alcun limite di età (peraltro, oggi, a sedici anni una ragazza può benissimo decidere da sola). Cioè a dire sarebbe bastato portare alle estreme conseguenze l'idea che solo la donna, maggiorenne o minorenne che sia, e non certo un giudice, un medico, un marito, un tutore o i genitori, può decidere se portare avanti o meno una gravidanza. E' infatti la donna che, a prescindere dall'età, rimaneva, rimane e rimarrà sempre sola in questa delicatissima decisione. Né la famiglia (genitori, parenti), né la società (il servizio di assistenza, in consultorio), né lo stato (il giudice, il medico). Con buona pace delle ideologie di ieri e di oggi, solo lei. Nessun altro.

Fonte: Linkiesta

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Italia a basso sviluppo "umano"

donneafrica
(Fonte: Globalizzazione, Giunti)

In questi ultimi tempi, soprattutto dopo la vicenda del fallimento della Grecia e le difficoltà di Portogallo e Irlanda, non si fa altro che parlare del possibile declassamento dell’Italia, da un punto  economico, a paese di secondo rango. Il problema è indubbiamente reale e non va sottovalutato. Anche analizzando la questione esclusivamente in termini di Pil, un parametro di comparazione ormai limitato e tutt’altro che efficace, la parabola discendente del nostro paese appare inconfutabile: da quinta potenza mondiale, nel 1986, quando scavalcammo addirittura l’Inghilterra, a ventinovesima oggi, in termini pro capite. Per dare un’idea del degrado socio-economico del paese basta ricordare due dati: il potere di acquisto dei salari italiani è progressivamente diminuito da 13,6 punti del 1971 a circa 1 punto nel 2010; il compenso per ora lavorativa è ben al di sotto di paesi europei come Svezia, Danimarca (dieci volte maggiore), Norvegia, Germania, Francia, e tra i più bassi di tutti.
Se poi osserviamo il livello di competitivit
à dei paesi mondiali non attraverso il dato del semplice benessere economico o del salario medio ma secondo un’altra più interessante e utile lente, cioè a dire lo sviluppo culturale e i diritti umani, ci rendiamo conto di essere diventati, e da un bel pezzo, uno dei fanalini di coda.
Si lamenta il profondo distacco tra paese legale e paese reale, tra il chiuso mondo della politica insensibile agli effettivi problemi e bisogni della gente e il mondo vitale della societ
à che si impegna nella quotidianità ed è veramente costruttore di storia. Questo aspetto è emerso, con grande portata ma non ancora con l’impatto rivoluzionario di cambiamento che certe premesse meriterebbero, in occasione del recente voto referendario.
Si depreca, spesso, che il parlamento sia indotto a legiferare solo sulla base degli interessi opportunistici di singole personalit
à o di spinte corporative di ben individuati gruppi di pressione (dalla P2 alla P4), o, eventualmente, a seguito dell’esplodere di problemi enormi (tipo il caso dei rifiuti di Napoli), rincorsi, più che previsti. Sono ormai dati di fatto, che condannano, nel giudizio ormai quasi unanime della storia, le classi dirigenti degli ultimi decenni.
Non si deve affatto pensare, per
ò, che prima l’Italia fosse un paese all’avanguardia nel campo della legislazione sui diritti e nello sviluppo umano. Siamo sempre arrivati in enorme ritardo rispetto ad altri paesi europei all’appuntamento con leggi e provvedimenti volti a  migliorare il grado di civiltà del paese.
Per dare l’idea basti prendere in esame, sinteticamente, alcune vicende. La legge sull’adozione dei minori prevista in Svezia o in Olanda molti decenni prima, in Italia veniva abbozzata solo a partire dal 1965, e con moltissimi limiti, ovvero con l’adozione speciale (poi rivista nel 1983), e tuttora non proprio all’avanguardia.
La legge che ha reso legale il divorzio fu votata in Italia nel 1970 (solo Spagna, Irlanda, Liechtenstein e Andorra, tra i paesi europei, a quella data, non l’avevano ancora fatto), mentre in Inghilterra una simile legge era presente fin dal 1857 con il
Divorce Act e in Francia addirittura dal lontano Code civil del 1792.
La legge sull’assistenza psichiatrica in Francia
è stata promulgata già alla fine dell’Ottocento, e mentre in Inghilterra e in Svizzera la psichiatria era comunque considerata una materia di primo ordine e di alto valore sociale, in Italia, come al solito in netto ritardo, doveva arrivare Basaglia, nel 1978, ad aprire alcune prime utili prospettive legislative in un settore totalmente snobbato ed emarginato.
La legge sulla regolamentazione della gravidanza, approvata da noi solo nel 1978, quando nella quasi totalit
à degli altri paesi del mondo già esisteva (eccetto che nei casi di Spagna, Portogallo, Irlanda, Belgio e Lussemburgo, e di pochi altri paesi africani, asiatici e sudamericani).
Infine la legge contro la violenza sessuale sulle donne, approvata in Italia, pur  con molti limiti, nel 1996, con un ritardo a dir poco abissale rispetto ad altre legislazioni di paesi europei e occidentali.
In un contesto di cronica arretratezza, per
ò, il parlamento italiano, pur dominato da posizioni contrapposte tra i partiti di maggioranza e quelli di opposizione, e pur segnato da quello che alcuni politologi hanno definito un limite di “decisionismo”, dovuto alla poca forza del potere esecutivo rispetto al legislativo, in un arco di tempo che va dalla fine degli anni sessanta ai primi anni ottanta, era riuscito, in qualche maniera, ad allinearsi, in un certo senso, con gli altri paesi “civili”.
Quello che
è accaduto successivamente, dagli anni Novanta, dopo la spinta al bipolarismo e la nascita dei “moderni” partiti mediatici, è, in buona sostanza, sotto gli occhi di tutti. Ma forse è bene rinfrescare la memoria a chi tende a dire “tanto è così un po’ dappertutto”, oppure, “è colpa della crisi globale”. Anche in questo caso, riportare qualche esempio, rifacendoci proprio a quei parametri di “sviluppo umano” accennati all’inizio, può essere utile.
A tal proposito ci viene in aiuto una fonte estremamente interessante, ovvero lo
Human Development Report 2010 delle Nazioni Unite. Un rapporto fondato sull’analisi di una serie di indicatori raggruppati in alcune aree considerate essenziali allo sviluppo. E’ evidente che solo comprendendo quali siano i veri fattori chiave che alimentano lo sviluppo e la produttività e quali gli ostacoli da rimuovere, si possono mettere in atto riforme capaci non solo di migliorare il reddito pro capite ma soprattutto di dare maggiori opportunità ai propri cittadini.
E’ utile analizzare, a questo proposito, alcune variabili come la possibilit
à di accesso alle istituzioni e al mondo del lavoro da parte di uomini e donne, la funzionalità delle infrastrutture, l’impatto delle politiche su salute e istruzione (primaria, superiore e universitaria), la disponibilità tecnologica, l’innovazione della ricerca.
Secondo questi parametri l’Italia, con 23 punti, si colloca addirittura intorno alla cinquantesima posizione in termini di livello di competitivit
à (si tenga presente che la Norvegia, ovvero il paese più progredito, ha totalizzato 1 punto, mentre l’ultimo, il Congo, 169 punti) e su almeno 9 dei 12 parametri, è messa molto peggio degli altri paesi sviluppati, e, sembra incredibile, anche di alcuni paesi in via di sviluppo. Solamente tra il 2009 e il 2010 siamo scesi di cinque posizioni in classifica, producendo un impoverimento della popolazione italiana ed allontanandoci sempre più dal benessere, non solo economico ma anche culturale e sociale, degli altri cittadini del mondo. Non solo di quello occidentale ma anche medio-orientale, africano e asiatico.
Scendendo nel merito, si scoprono informazioni interessanti circa i livelli pi
ù bassi toccati dal nostro paese. Non molti sanno, infatti, che la quota di popolazione italiana con almeno il livello di istruzione secondaria raggiunge appena il 46,7% contro una media dei paesi sviluppati Oecd del 73,8% (con livelli ben più alti per Norvegia 99, Australia 96, Stati Uniti 94, Germania 91).
Un altro elemento su cui riflettere, a dispetto delle continue richieste di abbassamento dei livelli di spesa pubblica formulate dall’attuale classe politica, sono le spese per la sanit
à, con un punteggio di 2686, contro una media dei paesi sviluppati Oecd di quasi il doppio (4222), in particolare le spese in letti di ospedale (39 contro la media europea di 63).
Oltre alle note differenze di salario tra uomo e donna, in linea peraltro con i 33 paesi principalmente sviluppati (il 74% circa rispetto a quello degli uomini nel periodo 2003-2006), colpisce il bassissimo dato dei seggi in parlamento occupati dalle donne, per l’Italia appena il 20,2% contro 47% di Svezia, 39 di Olanda, 31 di Germania, 41 di Finlandia, 33 di Spagna, ma soprattutto sorprendono le medie, ben superiori alla nostra, di stati come Singapore, Portogallo, Emirati Arabi, Argentina, Costarica, Sud Africa, Cina, Cuba e perfino Iraq.
Altri dati significativamente bassi sono quelli relativi: al grado di impegno politico della cittadinanza, con i 14 punti dell’Italia (meno di noi solo paesi come Polonia, Romania, Kazakistan, Armenia, Sri Lanka, Bangladesh, Yemen, Myanmar, Nepal e Zimbawe); e al livello di soddisfazione per la libert
à di scelta e la rappresentanza politica, in cui il nostro paese si colloca a quota 60 punti (tra tutti gli stati del mondo raggiungono un punteggio inferiore solo Corea, Grecia, Slovacchia, Estonia Ungheria, Bulgaria, Albania, Ucraina, Romania, Algeria, Mongolia, Pakistan, Congo, Madagascar, Togo, Senegal, Etiopia, Zimbawe, Burundi, Cuba e Iraq).
A proposito di libert
à intesa in senso più ampio, può essere utile riportare ciò che riferisce Amnesty International sul nostro paese nel Human Rights Report 2011, per confrontarlo col recente passato. Potrebbe apparire paradossale il confronto ma, a ben guardare, non lo è affatto.
Nel Rapporto sulla
Tortura negli anni Ottanta (pubblicato da Amnesty), cioè in pieno terrorismo, si può leggere che la tortura ed il maltrattamento di persone nelle carceri non erano una prassi di normale amministrazione in Italia.
Nel recente rapporto relativo agli ultimi anni, invece, si parla di violazione costante dei diritti di
Rom e Sinti, sprezzanti commenti discriminatori su lesbiche e gay, formulati da parte di alcuni politici, e violenti attacchi della popolazione contro migranti, che suscitano un clima di intolleranza, impossibilità da parte dei richiedenti asilo politico di accedere alle procedure di protezione internazionale (le domande d’asilo in Italia hanno continuato a diminuire drasticamente), maltrattamenti da parte di agenti delle forze dell’ordine su giovani e su detenuti.
In questo fosco quadro, va ricordato che il governo italiano ha, ancora di recente, respinto 12 delle 92 raccomandazioni complessive ricevute da Comunit
à europea e Nazioni Unite, e rifiutato di introdurre il reato di tortura nella legislazione nazionale e nel codice penale, nonché di abolire il reato di immigrazione irregolare, soprattutto tenuto conto del cronico sovraffollamento delle strutture penitenziarie italiane.
Alla luce di tutto ci
ò non pensate si possa tranquillamente concludere, senza timore di smentite, che l’Italia è stato ed è ancora un paese dallo sviluppo troppo poco “umano”.

Tratto da: “il Mondo di Annibale”

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(Fonte Internet)

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Fabbriche di Nichi: a chi giova il funerale anzitempo?

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(Archivio personale)


«Le fabbriche utili per il voto, ma la politica è nei partiti» - Corriere del Mezzogiorno 16/06/2011.
Fratoianni liquida l'esperienza:
«Ora vengano in Sel».


Tempo fa avevo scritto sulle "fabbriche" come di un possibile mezzo, nuovo e fresco, di partecipazione giovanile alla politica, come di una speranza. Ora l'esperimento viene chiuso nel peggiore dei modi, dall'alto, con una dichiarazione. Fine dell'ennesima illusione a sinistra. Quantomeno si è usciti dall'ambiguità ed è stata fatta chiarezza.


Si veda, in proposito:
Politica e partecipazione. “Fabbriche” di democrazia partecipativa

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La vita quotidiana alla fine degli anni Venti

Moda e libertà

Alla metà degli anni Venti la donna si muove alla conquista di una nuova immagine di sé e di una maggiore libertà di movimento. Non è raro trovarla in atteggiamenti che in passato le erano vietati perché considerati sconvenienti: può truccarsi e fumare in pubblico, come il caso di queste quattro ragazze in costume da bagno sulla spiaggia di Aldeburgh, a Suffolk, nel 1927. Può trascorrere molto più tempo fuori di casa. La diffusione di nuovi ambiti di socializzazione, come i cafè-concert, le sale da ballo, i teatri, i clubs, i cinema, gli stadi, modifica in maniera radicale le abitudini di aggregazione, permettono la creazione di ulteriori spazi vitali, fuori dal contesto familiare. In questi scenari la donna inizia a muoversi gradualmente, nonostante in molti casi essa resti ancora esclusa e relegata a un ruolo marginale o di abbellimento. L’abbigliamento è improntato a dare un’immagine di grande dinamicità. Dopo il 1925, le gonne si accorciano al ginocchio: portate con disinvoltura, diventano il simbolo dell’aspirazione all’indipendenza. L’Europa, che da un lato guarda al benessere degli Stati Uniti, ha il suo centro in questa rivoluzione estetica in Francia. A Parigi Gabrielle Chanel, detta Coco, che già da anni proponeva l’uso dei maglioni maschili per le donne, lancia con grande scalpore la moda alla garçonne: abiti sciolti e lineari, gonne che iniziano ai fianchi, corte, ondeggianti a metà polpaccio, vita poco pronunciata, adatta a donne magre e giovani, La grande praticità di questo tipo di abbigliamento porta alla diffusione mondiale di questo modello, suggerisce l’idea di una vivace e scanzonata adolescenza, come dimostrano queste giovani donne che calcano un prato inglese quasi fosse il palco di una sfilata. Tipici i copricapi a cloche in feltro, sotto i quali la donna nasconde i capelli tagliati corti. Un autentico oggetto di culto è quello di velluto nero con striscia argentata obliqua in bella vista, ultimo capriccio del nascente cinema hollywodiano: lo Zeppelin Hat, indossato dall’attrice americana Anita Page nel film sulla storia del dirigibile Graf Zeppelin.

La nuova moda mare

Con la diffusione della moda dell’abbronzatura e delle vacanze al mare, i migliori stilisti si lanciano con fantasia nella produzione di tenute balneari originali che riscuotono un grande successo. I tre modelli distesi al sole insieme alle tre modelle portano pantaloncini da bagno firmati Jantzen. Il due pezzi nero, indossato dalla modella Simone De Maria, pu
ò essere considerato quasi un’anticipazione del bikini: calzoncini corti e attillati e un top dello stesso colore, con al centro il monogramma personalizzato del famoso Jean Patou, il sarto preferito dalla stella del cinema Louise Brooks. Patou, che ha aperto a Parigi un esclusivo atelier dedicato ai costumi da bagno, risulta un eccezionale creatore di collezioni da mare in cui ha un’importanza centrale il colore, proposto, ogni stagione, in tonalità sempre nuove (ricordiamo il Patou blue e il dark dalia, del 1929). Il costume intero di lana nera della modella con la cuffia chiara, disegnato da Helene Yvande, è invece da considerarsi un classico di questo periodo. Semplice e raffinato, il costume di tricot con strisce bianche di jersey ideato dall’irlandese Molyneux, che alle stravaganze francesi predilige uno stile più sobrio, molto apprezzato dalle donne della buona società, tanto da permettergli, dopo il 1925, l’apertura di più sedi della sua casa di moda parigina. I calzoncini e i top da uomo, i costumi interi con cintura e strisce nella parte inferiori proposti da Lucien Lelong confermano l’uso diffuso del jersey anche nella moda per il mare, nelle mises maschili come in quelle femminili, particolarmente adatto per le sue caratteristiche di praticità e di vestibilità. Sempre nel campo dei tessuti, Sonia Delaunay, moglie del pittore Robert, è la prima a presentare disegni geometrici derivanti dall’astrattismo pittorico. Il costume da bagno della modella a sinistra è confezionato in morbida seta blu, arricchita da ricami in rosso, bianco e verde, in modo da formare una serie continua di rombi colorati.

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(Archivio Alinari)

Il modello di donna


Il passaggio a prodotti innovativi dal punto di vista tecnologico finisce per modificare solo in parte lo stile di vita dei ceti medio-bassi, perch
é trasforma soprattutto aspetti della vita meno necessari. Il consumo tecnologico, fin dagli anni Venti, diventa un esercizio di libertà, che arricchisce e migliora la vita quotidiana; ma non mancano i suoi risvolti negativi, dal momento che non è bilanciato da un’educazione e da una solida cultura. Anche le donne usufruiscono, in prima persona, dei nuovi beni di consumo, come articoli da decorazione, prodotti di bellezza, accessori domestici, ma rimangono indietro sul versante dei diritti essenziali. Nel 1926 una donna può comprare della frutta dal distributore a monete alla Stazione di Paddington a Londra; una ragazza può accendere il primo tostapane elettrico e prepararsi un toast). Una giovane e elegante signora fa una dimostrazione delle capacità della cucina a gas “New world”. Le modifiche introdotte nei consumi individuali, il fascino esercitato da altri stili di vita, come quello diffuso dal cinema americano, ampliano le vedute delle donne. Esse vivono un momento decisivo nel loro percorso di emancipazione. Specialmente nei paesi di tradizione protestante, di maggiore sviluppo capitalista e con sistema parlamentare, come la Finlandia, la Norvegia, i Paesi Bassi, l’Inghilterra, gli Usa, alle precedenti battaglie per il diritto di voto, si iniziano ad affiancare quelle per il divorzio, contro la legalizzazione della prostituzione, per la parità economica nel matrimonio, per l’ingresso nel mondo del lavoro. Alla metà degli anni Venti, in Italia, il fascismo scoraggia l’accesso femminile al mondo del lavoro, in particolare all’istruzione pubblica. Di pari passo vengono create delle scuole per le donne, in cui vengono istruite in tutto ciò che il regime ritiene “femminile”, ponendo le basi di una protezione costante. Nonostante ciò in Italia si riscontra una elevata percentuale (circa il 40%) di donne lavoratrici sposate, più alta di qualsiasi altro paese europeo, ad eccezione della Svezia socialdemocratica, dove però beneficiano di ampie tutele e servizi.

Grandi magazzini e tessuti sintetici


L’avvento dei materiali chimici e dei tessuti sintetici costituisce un caso pressoch
é unico di intenso sviluppo di un settore produttivo nuovo, ad elevata intensità di capitale e di ricerca tecnico-scientifica. Le innovazioni di prodotto e i continui miglioramenti qualitativi ne agevolano la veloce diffusione. E’ significativo che questa produzione non diminuisca neppure nelle fasi più buie della crisi mondiale, facendo segnare anzi una stabile affermazione. Intorno alla seconda metà degli Venti, calzifici, cotonifici e setifici assorbono poco meno dei due terzi della produzione mondiale di filati artificiali.
I nuovi filati artificiali iniziano ad affiancare e sostituire il cotone per certi impieghi, particolarmente nei tessuti estivi. Anche il mercato delle calzature, accanto alle classiche in cuoio e pelle, destinate ad un pubblico elitario e raffinato, come quelle esposte in una elegante vetrina della Dulcis ed osservate da questa donna, viene invaso, soprattutto negli Usa, da materiali artificiali, sintetici e chimici, come la gomma. Nel 1930 si sviluppa un vero boom delle scarpe sportive di gomma con lacci, prodotte dalla Dunlop. Sempre alla fine degli anni Venti si verifica, anche in Italia, l’influenza dei grandi magazzini nel vasto settore dell’abbigliamento. Si impone la standardizzazione dei prodotti, della qualit
à e della confezione, si moltiplicano le catene di negozi. La formula del prezzo unico nella vendita al dettaglio, sviluppatasi diversi anni prima negli Usa da grandi magazzini tipo Prisunix, Monoprix e Woolsworths, è principalmente rivolta verso quei clienti per i quali il prezzo rappresenta l’elemento chiave dell’acquisto. In Italia la Rinascente, così battezzata dal poeta Gabriele D’Annunzio, fonda nel 1928 la Società Upim (Unico Prezzo Italiano Milano), che apre il suo primo magazzino a Verona. In Via del Tritone a Roma, durante i lavori di pavimentazione, spicca in primo piano un grande cartellone pubblicitario dei neonati magazzini Upim.

L’automobile accelera la vita


Il pi
ù aggressivo simbolo del progresso degli anni Venti è indubbiamente la produzione delle automobili su vasta scala. Nel 1929 in Usa vi sono già 200 automobili ogni 1000 abitanti. L’automobile, per chi se la può permettere, accelera la velocità della vita, offre nuove forme di passatempo, dà libertà alla gioventù, contribuisce allo sviluppo di una moderna industria, procura lavoro a milioni di persone. Dopo aver puntato sull’aumento della velocità di rotazione, salendo al vertice di ben cinque mila giri al minuto, e sul frazionamento della cilindrata a sei e otto cilindri, per ottenere motori più equilibrati, dal 1925 le aziende costruttrici di automobili ricorrono all’arma segreta della sovralimentazione. Innestano un compressore che, comprimendo la miscela di aria e benzina, introduce ad ogni mandata una maggiore quantità di combustibile nel cilindro di quella che entrerebbe per normale aspirazione. In tal modo la potenza che si può ricavare dal motore viene considerevolmente aumentata, dando inizio all’era delle veloci auto da corsa. Mentre sotto la legge ferrea dell’industrializzazione e della concorrenza internazionale si fa più dura l’esistenza delle piccole aziende, si affaccia nel 1926 una nuova macchina da corsa, la Maserati. A Modena si comincia a parlare di Enzo Ferrari, un automobilista di razza, che dopo aver fatto parte della squadra dell’Alfa Romeo, ha lasciato il seggiolino di pilota per dedicarsi alla progettazione di macchine da corsa, con la sua Scuderia Ferrari. Di grande interesse, per le tendenze che si delineano, appare il XVIII Salone italiano del 1925. L’Itala espone il suo capolavoro: il modello 61, una creazione perfetta di raffinatezza tecnica ed estetica. L’Alfa Romeo presenta una sei cilindri 1500, che perfeziona sempre più fino a quando, nel 1930, consacra alla sua guida il pilota Nuvolari, che vince la Mille Miglia, viaggiando a una media di oltre 100 km/h. La Lancia tiene il campo con la sua Lambda. Nel 1930 la nuova automobile, spinta dal carburante miscelato, possiede due larghi cilindri sulla parte anteriore.

La nuova illusoria modernit
à

Negli met
à degli anni Venti si consolida la convinzione che la scienza e la tecnica siano in grado di garantire a tutti sicurezza economica e benessere. Il simbolo del progresso americano è rappresentato dalla produzione su vasta scala e dalla diffusione dell’automobile che, da mezzo d’élite, diventa un bene di prima necessità, basato su un sistema tecnologico orientato alla produzione di massa. Il taylorismo, il fordismo, il sistema manageriale di Sloan, con innovazioni che riguardano il marketing, si diffondono in tutta l’industria americana, con l’espansione della produzione dei beni di consumo. S’inventano soluzioni che rendono più semplice la vita, costretta a ritmi più veloci e stressanti. Nel 1928 alcuni passeggeri salgono per la prima volta su una scala mobile, progettata da Charles Holden, nella Metropolitana di Piccadilly a Londra, da poco aperta. Il 15 ottobre 1929 viene pubblicizzata una nuova linea di rasoi elettrici, che permettono di radersi in metà del tempo impiegato abitualmente e di velocizzare così i tempi d’inizio della giornata. Nel 1930 alcuni impiegati americani pranzano in un fast-food dotato di sifoni per bevande, accanto al luogo di lavoro. L’invenzione di prodotti di consumo su vasta scala provoca però squilibri tra il mondo capitalista, che si arricchisce, e la condizione dei lavoratori nelle aziende, che peggiora. Anche in Italia, insieme alla modernizzazione che provoca un salto di qualità nell’organizzazione del lavoro, si assiste ad una dequalificazione delle mansioni, con perdita dei contenuti professionali. Nonostante l’impegno di giovani esponenti d’avanguardia del ceto imprenditoriale, come i fratelli Olivetti, che nel 1926 fondano l’Ente Nazionale Italiano per l’Organizzazione Scientifica del Lavoro, allo scopo di incentivare la razionalizzazione industriale, l’aumento della produttività non significa sempre ammodernamento e avanzata divisione del lavoro, ma quasi esclusivamente intensificazione del lavoro, accelerazione del ritmo produttivo, a scapito delle condizioni dei lavoratori stessi.

Il crollo di Wall Street


Tra il 24 ottobre e il 29 ottobre 1929 il mercato azionario di New York conosce il pi
ù grande crollo della storia. Un’enorme folla di operatori e risparmiatori, esperti e semplici cittadini, ferma davanti al Treasury Building, assiste incredula al crollo della Borsa di Wall Street. In una sola giornata circa 13 milioni di azioni cambiano proprietario, provocando una perdita complessiva, per l’economia americana, di nove miliardi di dollari. È il cosiddetto “Giovedì nero”. A gettare il mondo intero in una devastante fase recessiva è soprattutto il comportamento caotico degli operatori che in precedenza avevano favorito una lunga serie di profitti. Sulla scia di New York avviene il crollo delle borse europee, nonostante le limitazioni tentate dalle banche centrali, con il conseguente calo della produzione, degli investimenti, dei redditi, dei depositi bancari, la caduta dei prezzi dei beni primari, l’aumento delle giacenze nei magazzini e dei debiti. Le tariffe protezioniste soffocano il commercio internazionale. Dagli Usa all’Europa, in particolare in Germania, Austria e Inghilterra, perfino ricchi proprietari come il newyorchese Walther Thorton che vende la sua appariscente automobile per appena 100 dollari, si trovano improvvisamente di fronte ad un futuro incerto. Nel 1930 sono ancora in pochi a intravedere la gravità e la profondità della crisi, ma i 30 milioni di disoccupati degli anni successivi sono una realtà con cui le classi dirigenti occidentali non potranno fare a meno di fare i conti. Gli effetti della “depressione” del 1929 mostrano drammaticamente la vulnerabilità di un’economia di mercato senza controlli, come ammise subito l’economista inglese John Maynard Keynes. L’America mette da parte i miti ultraliberisti e inaugura l’esempio più cospicuo di dirigismo economico. Il nazionalismo economico degli anni della grande crisi apre dunque la strada in Europa, nel decennio successivo, alle esperienze totalitarie e autoritarie.

Lavorare prima e dopo la Grande Depressione


Nel febbraio 1930 le operaie dell’industria conserviera Del Monte dispongono pesche nelle cassette con la stessa cura con cui le lavoratrici di una fabbrica di Birmingham sistemano e allineano i barili di olio nel deposito. Sono due tipici scenari del processo di produzione su vastissima scala, che sta alla base dell’espansione economica degli Usa nella seconda met
à degli anni Venti. Gli Usa, in questi anni, vedono crescere il loro prodotto interno lordo del 2% e diminuire l’inflazione (sotto l’1%) e la disoccupazione (3,5%). Aumentano lavoro e salari, beni e servizi, il reddito medio si incrementa del 30%. In particolare, gli immigrati forniscono all’industria la manodopera a buon mercato necessaria per il suo sviluppo, infoltendo però sensibilmente la quota del sottoproletariato urbano. Un “urbanesimo del lavoro” di eccezionale portata continua a svilupparsi a ritmo frenetico. Tutta la costa atlantica, da Boston a Washington, diventa una sola immensa città del lavoro, la cosiddetta “megalopoli”. Educazione, mobilità nel lavoro e consumi sono i pilastri della cosiddetta americanizzazione. La classe media si espande a macchia d’olio, tanto da includere sia professionisti che operai. La cosiddetta opinione pubblica, urbana e bianca, cuore del processo di massificazione dei consumi, si identifica sempre più con essa.
Pur con difficoltà e contraddizioni, anche l’Europa sembra giungere alla fine degli anni Venti in una situazione di maggiore distensione e prosperità rispetto all’inizio del decennio. Il principale problema economico è l’enorme debito creato dalla guerra. I prezzi dei prodotti diminuiscono, per l’aumento della produzione e per le politiche protezioniste, mediamente del 30 % dal 1924 al 1929. La Gran Bretagna è il paese che paga maggiormente il prezzo della competizione internazionale, diminuendo la quota del commercio, della produzione e del consumo nei settori tessile, carbonifero e dell’acciaio. In Francia, invece, la produzione di automobili e di elettricità aumenta sensibilmente dal 1925 al 1929, a dimostrazione di una generale stabilità economica differenziata e ancora precaria.
La vittima più grande della crisi finanziaria del 1929 è certamente il mondo dei lavoratori. Accanto alla disoccupazione, che colpisce indiscriminatamente operai, impiegati, soprattutto giovani, e che si prolunga per anni, cresce la miseria diffusa in città e nelle campagne, diminuisce sostanzialmente dappertutto il livello della vita. Peggiora la salute, aumentano la mortalità e la sottonutrizione infantile. I quattro bambini ossuti che divorano le pannocchie di granturco accovacciati ai piedi di una strada polverosa in periferia non sono che una delle tante scene di ordinaria miseria in cui cade la contraddizione della ricca civiltà occidentale. Negli Usa crescono coloro che perdono la proprietà e l’impiego. Le donne sono le prime ad essere licenziate e a cercare di sbarcare il lunario con improvvisati mezzi, come questa donna e le sue mele. La Germania è, insieme agli Usa, il paese che soffre la maggiore disoccupazione a seguito della crisi, fino a raggiungere il 22% della popolazione attiva nel 1930. Ad essere colpiti in modo massiccio sono gli agricoltori, che riducono di un terzo il reddito medio. Negli Usa i sindacati riuniti nella AFL, American Federation of Labor, erano unioni locali di operai specializzati, la loro era una politica di collaborazione di classe volta ad ottenere dai datori di lavoro paghe decenti. Solo nel 1929, parallelamente al crollo della Borsa, si forma un nuovo gruppo di associazioni sindacali più combattive, la TUUL, Trade Union Unity League, distaccatasi dall’AFL, fondata soprattutto attraverso il volontariato degli iscritti. In Inghilterra, già dopo lo sciopero nazionale del 1926, come negli Usa, in particolare dopo il 1929, nascono uffici di assistenza contro la disoccupazione generalizzata. L’occidentalismo che aveva mostrato la sua incapacità a mantenere politicamente la pace e l’equilibrio in Europa nel primo ventennio del secolo, al termine degli anni Venti si rivela impotente anche nel controllo della crisi economica e finanzaria.

La società del lavoro: il vecchio e il nuovo

Il paradosso americano ed europeo della fine degli anni Venti, che dopo la Grande Crisi si accentua ancora, è che mentre gli aspetti meno essenziali, gli usi e i costumi sono largamente mutati, la struttura della società non è cambiata gran che. Anche se durante il boom economico si dice che le vecchie distinzioni di classe sono ormai scomparse col sorgere di una grande classe media, e che i problemi quotidiani di lavoro e ingiustizia sociale sono dissolti con la diffusione del cinema, degli apparecchi radio, delle automobili, della nuova scienza e tecnica, la povertà non è scomparsa, anzi. Al di là degli ottimismi e delle mitologie psicologiche, i mutamenti veri nelle strutture sociali e lavorative sono del tutto trascurabili. Il mondo del lavoro è composto, in maggioranza, da individui senza alcuna qualifica e in certi settori, come l’edilizia, da immigrati. Aumentano gli impiegati, i cosiddetti colletti bianchi, ma a prezzo di una crescente dequalificazione di massa. I datori di lavoro sono sempre gli stessi, i lavoratori rimangono lavoratori, gli stipendi sono mutati appena, mentre cresce il numero di coloro che vivono non in attesa di una busta paga, ma di lavori saltuari. Le differenze di classe in Usa, ma anche in Europa, in questi anni, non solo rimangono forti, ma si cristallizzano in differenze di casta. I ricchi sono pochi, e quei pochi lo sono così tanto che la loro stessa ricchezza li rende lontani dalla maggioranza, che soffre le conseguenze di una crisi messa in moto dall’essenza stessa del capitalismo. Nel settembre 1930 non è improbabile trovare un assistente di un qualsiasi ufficio di collocamento in Snow Hill a Londra, intento a prestare aiuto a un colletto bianco, o un disoccupato a Los Angeles, in California, che riceve una piatto di zuppa e qualche fetta di pane in un distribuzione all’aperto durante la Grande Depressione. Il nuovo e diverso mondo della fine degli anni Venti non è poi così cambiato.

Al Capone e l’era del proibizionismo


Il proibizionismo in Usa rappresenta uno degli esempi pi
ù significativi della contraddizione tra aspettative di libertà e realtà. Il Volstead Act, approvato nel 1920, considera intossicanti le bevande con oltre lo 0.5% di alcool e, nonostante lo sforzo dello Stato che istruisce procedimenti penali, sequestra milioni di bottiglie di birra e whisky, distrugge gli apparecchi di distillazione illegali, alla fine, complice l’inefficenza e la corruzione generalizzata della polizia e dei giudici, riesce essere costantemente aggirato.
Al Capone, figlio di emigranti di origine partenopea, dal 1925 trasforma Chicago nel più noto centro di contrabbando d’alcool e di armi d’America. Giunto ai vertici della criminalità organizzata, tra il 1927 e il 1928, sposta il suo quartier generale all’Hotel Lexington, che diventa sede e motore di una organizzazione illegale che gli frutta oltre 100 milioni di dollari l’anno, con le attività legate alla “protezione”. Guadagni che iniziano ad attirare l’interesse degli uffici dell’FBI che si occupano di frode fiscale. Il 14 febbraio 1929 Capone provoca la nota strage di San Valentino, sbarazzandosi in un sol colpo della banda rivale degli irlandesi, crivellati da centinaia di colpi davanti al muro di un piccolo garage di periferia. Tra le vittime della strage, oltre a Moran e O’Banion, anche uno dei fratelli Gusenberg, la cui bara, di fronte a una folla di “fedelissimi”, viene trasportata dalla cappella al cimitero cittadino. Lo stato americano, fiancheggiato dall’appoggio delle classi legate a valori tradizionali, protestanti-anglosassoni e puritani, finisce per peggiorare i rapporti tra minoranze e maggioranza bianca nella società civile. Il gangster Al Capone, sfruttando una legge sostanzialmente diretta contro gli immigrati e i neri, accusati di favorire la degradazione fisica e morale attraverso l’abuso di alcool, diviene il paladino del libero mercato americano. Il 18 novembre 1930 poveri lavoratori americani usufruiscono di una scodella di zuppa nella cucina di un locale di Al Capone alla 935 State Street.

Tratto da: “
La grande storia del Novecento. L’immagine di un secolo” (A. Mondadori, Milano)

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Vincono i no sulla 194 e l'ergastolo. Gli italiani chiedono maggiore sicurezza

Dopo l’entrata in vigore della legge, a detta della stampa laica pareva avesse avuto inizio l’era della libera civiltà, mentre da parte cattolica sembrava fosse iniziata l’epoca dell’anarchia più sfrenata. Ma a parte i soliti eccessi verbali, si trattava, piuttosto, di fare in modo che le procedure previste dalla legge venissero applicate, subito e nel migliore dei modi, dagli enti locali e dalle Regioni. In effetti, la legge era stata approvata in un'atmosfera molto tesa, con un Paese che sembrava quasi non accorgersene, preso com’era dal sequestro, dall'uccisione di Moro e dalla crisi economica (che aveva visto, dopo l’instaurazione del doppio sistema del cambio, l’aumento dei prezzi, la svalutazione della lira, la costante crescita dell’inflazione), scosso, di lì a poco, dalle dimissioni del presidente della Repubblica Leone, e dalla morte di ben due Papi, con l’elezione di Giovanni Paolo II.
Iniziava cos
ì, a partire dal 1979, tutta una serie di attacchi alla legge “194”, da parte del mondo cattolico quanto dei radicali, che lasciava presagire che la battaglia sull'aborto si sarebbe rilevata molto più dura e lunga del previsto.
Agli inizi del 1980, alcuni dati, a livello europeo e mondiale, apparivano per
ò incontrovertibili. La Francia, che aveva messo in prova per cinque anni la sua legge del 1974, l'aveva resa definitiva perché l'esperienza passata dimostrava che, con le garanzie sanitarie, il tasso di complicazioni relative agli aborti era diminuito di più del 50%, ed era sparito quasi del tutto quello di mortalità. Nell’ultimo decennio, inoltre, ben trenta paesi avevano introdotto la legalizzazione dell’aborto: dal Regno Unito (1967) alla Danimarca (giugno 1973), dalla Repubblica Federale tedesca (giugno 1976) all’Italia (giugno 1978). Nella Comunità europea rimanevano ancora legati a leggi restrittive sull’aborto solamente il Belgio e l’Irlanda, mentre perfino le “cattolicissime” nazioni, Spagna e Portogallo, avevano posto la questione all’ordine del giorno. Secondo le valutazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, erano comunque quasi 50 milioni, ogni anno, gli aborti nel mondo, almeno 20 milioni dei quali clandestini. Malgrado questa cifra impressionante, alla fine del 1979, l’aborto non occupava più il primo posto, ma il terzo, come strumento di controllo delle nascite, dopo la sterilizzazione volontaria e la contraccezione (il problema assumeva però dimensioni catastrofiche in tutti quei paesi dove, per motivi religiosi o legislativi, l’aborto non era sotto controllo medico,
in particolare in America Latina, nel Medio e nell'Estremo Oriente).

Alla fine del 1980, si profilava il successo della raccolta di firme per un referendum contro la legge, messa in atto da parte dell'Mpv, con ben due milioni di consensi, espressione della protesta popolare del mondo cattolico. Il primo referendum dei cattolici intransigenti, quello “massimale”, richiedeva il divieto di aborto in generale, ad eccezione del pericolo di vita per la madre. In questo caso le obiezioni del fronte opposto si incentravano sul rischio del cosiddetto vuoto legislativo. Per questa ragione l'Mpv aveva presentato una seconda proposta di referendum, “minimale”, che proponeva non la soppressione ma la riduzione del diritto d’aborto (art. 4,5 e parzialmente del 6 della legge). Anche in questo modo veniva comunque azzerata la legge “194” nell’autodeterminazione della donna e si ammetteva soltanto l’aborto terapeutico, stabilito dal medico, prevedendo un ritorno alla legislazione precedente. Esisteva però, sul fronte opposto, una richiesta di referendum da parte dei radicali, che mirava a raggiungere la piena liberalizzazione dell’aborto, mentre da parte socialista, il deputato Fortuna segnalava quelle che gli parevano due delle carenze più gravi della legge: il problema delle minorenni che potevano abortire esclusivamente col consenso del padre o del giudice tutelare, e l’esclusione della possibilità di abortire nelle case di cura private.
La questione dell’aborto, che aveva sviluppato un vasto dibattito tra i partiti e nella Chiesa, in prossimità della data del referendum, diventava un tema sempre più appassionato di discussione nella società civile, sentito, per ovvie ragioni, in particolare dal movimento delle donne. Il movimento femminista era andato incontro ad una sostanziale modificazione: dalla prima fase più estremista, era passato, gradualmente, ad una seconda fase, più meditata, di radicamento culturale nella società, deciso a difendere la legge e a migliorarla, senza però farsi intrappolare nello schema riduttivo del “si o no”. Dall'unità di intenti di questi gruppi della società, dei partiti politici della sinistra tradizionale e dei cattolici democratici indipendenti, sarebbe nata la mobilitazione
a favore del mantenimento della legge durante la campagna referendaria.

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(Archivio Alinari)

Intanto, dopo la discesa in campo di Papa Wojtyla contro la legge, si incrementavano gli appelli dei vescovi, delle parrocchie (molti parroci tenevano discorsi non solo dai pulpiti, ma addirittura dai palchi predisposti nelle piazze) e delle organizzazioni cattoliche per il “s
ì”. Nel Sud d'Italia si moltiplicavano le processioni che si concludevano con veri e propri comizi a favore del referendum proposto dall'Mpv; in qualche caso estremo, anche la statua del santo patrono sfilava incoronata da un cartello con su scritto “Vota sì”.
I risultati del referendum del 17-18 maggio 1981, preceduto dall'attentato al Papa (che contribuì a svelenire le polemiche), furono netti: il “no” contro la proposta radicale di revisione della legge ottenne l’88,5%,
mentre quello contro la proposta dell'Mpv raggiunse il 67,9%.

I voti referendari mettevano in evidenza gli effetti della secolarizzazione della società italiana. Gli italiani avevano votato contro le tentate imposizioni della Chiesa su un argomento di così rilevante carica morale e civile. Non solo era stata messa in gioco, dopo la precedente sconfitta sul divorzio, l’incidenza politica della Chiesa in Italia, ma la sua stessa influenza culturale. Colpiva, infatti, la quasi coincidenza tra le percentuali provvisorie dei “sì”, intorno al 30%, e i dati relativi alla partecipazione alla messa domenicale che, dal 69% del 1950, erano calati al 28% circa del 1980. L’opinione pubblica aveva rivelato, inoltre, una notevole misura di autonomia dai partiti, a fronte di un loro eccessivo coinvolgimento, con forme visibili di politicizzazione, durante la campagna referendaria.
Il voto non era solo la conseguenza di un'affermazione di libertà, pluralismo e autodeterminazione, ma poteva essere letto anche come motivo di preoccupazione per l'indifferenza che toccava non solo la sensibilità religiosa, ma anche quella civile. Una chiara contraddizione era infatti la contemporanea vittoria del “no” all’abrogazione dell’istituto dell’ergastolo. Se davvero il referendum sull’aborto avesse avuto quelle motivazioni culturali e civili che i vincitori gli avevano attribuito, la vittoria avrebbe dovuto essere accompagnata dall’abrogazione dell’ergastolo e non dalla sua conservazione a schiacciante maggioranza. Per la verità, l’appoggio popolare alla possibilità di abortire in strutture sanitarie statali e la funzione deterrente dell’ergastolo contro i delitti più gravi rappresentavano una crescente richiesta di sicurezza da parte degli italiani, che dimostravano il disinteresse verso problemi morali e di principio, e mettevano in evidenza sempre più quel “vuoto etico” verso il quale il recente processo di secolarizzazione, pur benefico e positivo per certi punti di vista, aveva spinto il Paese.

(Tratto da: “Il Riformista”,
poi ampliato nel volume: “
L’aborto in Italia. Storia di una legge” (Bruno Mondadori, Milano)

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Dal processo Pierobon a don Bettazzi. Il tortuoso iter che portò alla legge 194

La vicenda della regolamentazione dell'aborto in Italia si è contraddistinta per un vasto dibattito culturale, sostenuto ad alti livelli, ed ha avuto un iter parlamentare molto travagliato. Gli sviluppi delle riflessioni filosofico-religiose e politico-sociali sul quesito della vita hanno avuto importantissime implicazioni nel corso degli Settanta; questa stagione è sostanzialmente dietro l'angolo ma, secondo le analisi che leggiamo in questi giorni sui quotidiani, sembra del tutto dimenticata. Per questo appare necessario ripercorrerla sinteticamente.
La questione dell’aborto è una tematica indubbiamente complessa e delicata, che implica il diretto coinvolgimento delle funzioni della famiglia, della società e dello Stato. Il fenomeno dell’aborto clandestino aveva assunto, infatti, nel corso dei secoli, una diffusione così alta da richiedere di essere affrontato dal punto di vista legislativo. L’ordinamento civile dei vari Stati, limitatosi per lungo tempo a ricalcare la visione religiosa, iniziò solo in età moderna a disciplinare il problema, sulla scia delle prime acquisizione scientifiche nel campo della fecondazione e dello sviluppo embrionale. Fu soprattutto nell'Occidente di derivazione illuminista e ispirazione liberale, che, a partire dagli anni Cinquanta, si iniziò a riflettere sulla problematica da un punto di vista laico.
Il primo atto, sul piano internazionale, fu l'approvazione all’unanimità, il 20 novembre 1959, da parte dell’Assemblea delle Nazioni Unite, della Dichiarazione dei diritti del fanciullo, che tutelava giuridicamente, prima e dopo la nascita, il diritto alla vita, ribadendo la dignità di persona spettante ad ogni essere umano. A questo principio si rifecero ugualmente,
ma con motivazioni diverse, i sostenitori delle opposte tesi sulla liceit
à dell’aborto.
Da un lato, netta era la posizione di condanna da parte della Chiesa verso chi praticasse l'aborto, qualunque fosse il grado di sviluppo del feto (il diritto canonico comminava la scomunica latae sententiae). Così si era espressa, prima con Pio XI, nell’enciclica Casti connubii del 1930, poi, con Paolo VI, nella Humanae vitae del 1968. In particolare, quest'ultimo aveva inflitto un duro colpo al principio della collegialità nell'esercizio dell'autorità ecclesiastica, sancito durante il Concilio Vaticano II, riaffermando il suo divieto alla contraccezione, dopo che, qualche anno prima, a seguito della scoperta della pillola anticoncezionale “Pincus”, una pontificia commissione per lo studio dei problemi della famiglia e della natalità (istituita da Giovanni XXIII e composta oltre che da religiosi anche da membri laici), aveva dato sorprendentemente parere favorevole all’uso della pillola, nel contesto di una iniziale revisione della dottrina cattolica sul controllo delle nascite. Alla chiusura della Chiesa in materia di educazione sessuale corrispondeva l’inadeguatezza della legislazione in Italia, che vietava perfino l’uso degli anticoncezionali (previsto solo nel 1971, a seguito di una sentenza della Corte costituzionale): sull’aborto, infatti, non era prevista alcuna regolamentazione, salvo poi punirlo, come ai tempi del fascismo, in quanto «delitto contro
l’integrit
à e la sanità della stirpe», con la reclusione da due a cinque anni.
Dall'altro lato, sulla scia degli esempi di altri paesi (negli Usa, il Women’s Liberation Movement; in Germania, il manifesto delle donne pubblicato sulla rivista “Stern”; in Francia, la mobilitazione del Mouvement de Libération des Femmes), anche in Italia, i movimenti di emancipazione femminile, in particolare il Movimento di Liberazione della Donna e l'Unione donne italiane, iniziavano a parlare, agli inizi degli anni Settanta, di depenalizzazione, legalizzazione e addirittura di liberalizzazione dell'aborto. Nel nostro paese però le prime forme di adeguamento alla mentalità europea, con l’affermazione della libertà di scelta individuale e l’emancipazione delle donne, convivevano con il modello tradizionale della società, fondata sul matrimonio, sulla forza della famiglia, sulla morale cattolica
e sul disinteresse dello Stato verso le politiche sociali e familiari.

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(Archivio Alinari)

La spinta iniziale all’avvio di un dibattito parlamentare sull'aborto fu data dal Partito Radicale e da alcuni deputati socialisti che avevano proposto, inizialmente, un disegno di legge che si ispirava all'Abortion Act inglese del 1967.
Il problema che si intendeva affrontare, da parte laica, era quello degli aborti clandestini e illegali, che negli ultimi anni era diventato una vera e propria piaga sociale. A dispetto delle pesanti pene previste dal codice penale, i tribunali erano abituati a intervenire solo nei casi di aborti seguiti da morte della donna incinta, cioè un'infima minoranza. All’ombra del “magistero penale”, fiorivano disonesti e lucrosi commerci, e, in certi paesi europei, vere e proprie industrie dell’aborto: medici corrotti, “praticoni”, vendita di oggetti e medicinali, tutto illecitamente, almeno per la povera gente. Per le donne ricche invece intervenivano ginecologi esperti, cliniche di lusso in Svizzera o Inghilterra (ma anche in Italia), attrezzatissime e molto frequentate. Esistevano, come un tempo per il divorzio, le ben più pericolose “mecche dell’aborto”.
Il primo disegno di legge sull'aborto fu proposto l'11 febbraio 1973 dal socialista Fortuna, che prevedeva anche le ragioni eugenetiche per l'interruzione della gravidanza, a giudizio insindacabile del medico, quando ci fosse un rischio per la salute fisica o psichica della madre o anche il rischio di malformazioni del nascituro, e ammetteva l’obiezione di coscienza. E mentre si delineavano le posizioni “attendiste” del Pci (che si limitava sostanzialmente ad evitare di aprire un dibattito interno, rischioso per il proseguimento del confronto con la Chiesa sul Concordato), e della Dc (che voleva evitare, a sua volta, malumori nelle gerarchie ecclesiastiche), prendevano posizione, nel mondo cattolico, alcuni teologi moralisti, come Chiavacci, che, sulla scia della posizione pi
ù aperta dei gesuiti francesi,
si differenziava dalla rigida chiusura della Chiesa.

Intanto lo svolgimento del processo a Gigliola Pierobon (che aveva dichiarato pubblicamente di aver abortito) e la successiva sentenza di condanna, rappresentavano un chiaro sintomo di quel disagio con cui la magistratura si trovava costretta ad applicare gli articoli del codice Rocco che punivano l’aborto, in ogni caso, come un reato. Dopo le polemiche sulla stampa, la Procura di Firenze stabiliva l’arresto di un gruppo di radicali, auto-accusatisi di gestire un centro clinico dove si praticava l’aborto, mentre vedeva la luce, a Milano, il Centro di Informazione per la Sterilizzazione e l’Aborto, diretto da Faccio e Bonino, che iniziava a regolamentare privatamente la pratica dell’aborti, con corsi di aggiornamento per ginecologi e l’informazione sulla contraccezione e sulla sterilizzazione.
A questo punto accadevano due fatti che finivano per surriscaldare l'atmosfera, rendendo inevitabile lo scontro tra le parti contrapposte, che fino a quel momento sia la stampa, sia la Chiesa e i partiti, avevano tentato di rimandare.
Il 18 novembre 1974 la Chiesa si esprimeva solennemente nella Dichiarazione sull'aborto procurato della Congregazione per la Dottrina della Fede. Il nuovo documento vaticano, la pi
ù autorevole posizione espressa dalla Chiesa in materia, ribadiva la condanna di principio dell’aborto, anche se non aveva comunque irrigidito la sua posizione rispetto alla precedente enciclica. Nella dichiarazione si sosteneva che una legge civile non potesse abbracciare tutto l’ambito della morale e punire tutte le colpe, si invitava il credente a discernere situazioni diverse e a non intervenire direttamente in una eventuale legge. L'unica voce fuori dal coro unanime di condanna dei vescovi era quella di mons. Luigi Bettazzi (quello della lettera aperta a Berlinguer), il quale, pur riaffermando la sacralità della vita umana, invitava i cristiani a riflettere in maniera autocritica sulle posizioni prese in passato, che non avevano certo contribuito a diminuire la piaga dell'aborto clandestino. Il 19 gennaio 1975 “L’Espresso” apriva con un'emblematica copertina dal titolo: «Aborto: una tragedia italiana». L’ immagine, di forte impatto emotivo, di una donna nuda e incinta, crocifissa sotto la scritta “Ecce Mater”,
provocava l’intervento della magistratura e comportava al giornale la denuncia per oscenit
à e vilipendio della religione.
A dispetto della congerie grigia e conformista cui aveva abituato fino a quel momento la stampa, intervenivano anche alcuni intellettuali: Pasolini, nonostante il suo appoggio ai referendum promossi dai radicali, definiva l’aborto «una enorme comodità» della società moderna, paragonato a una «legalizzazione dell’omicidio»; Sciascia invitava a non dileggiare il mondo cattolico, ma anzi a coinvolgerlo nella scelta del futuro da prospettare all’umanità, mentre Eco e Bocca si chiedevano come si potesse fare a meno di un tipo di regolamentazione in vigore ormai in tutti i paesi civili del mondo; la Zarri e la Ginzburg sostenevano, suscitando scandalo tra i benpensanti, che il concepito era soltanto un’«ipotesi di bambino» e un «disegno remoto e pallido di una persona».
Intanto, nel 1975, prendevano corpo le altre proposte di legge: i socialdemocratici prevedevano che l’aborto potesse essere praticato anche dopo dieci settimane, ma solo a seguito di attestazione di un medico (tenuto ad attuarlo anche quando ciò contrastasse con la sua coscienza), in una clinica pubblica o privata (le spese erano a carico della persona interessata); i comunisti prevedevano l'intervento di una commissione composta da un medico “internista”, un ginecologo e un’assistente sociale, in modo da informare l’interessata sui rischi connessi, ma non ammettevano l'aborto dopo il 90° giorno dall’inizio della gravidanza (le spese erano a carico del fondo ospedaliero e degli enti mutualistici); i repubblicani prevedevano assistenza e consulenza gratuite a carico delle Regioni, l’istituzione di consultori comunali, e ammettevano l’intervento abortivo non oltre la decima settimana (riconoscevano per il medico l’obiezione di coscienza); i liberali proponevano un periodo di riflessione di 7 giorni, dopo il quale la donna poteva rinnovare la richiesta di aborto; infine, i democristiani intervenivano sui precedenti articoli del Codice penale, prevedendo la pena di reclusione da 7 a 12 anni per chiunque cagionasse l’aborto di una donna senza il suo consenso e confermavano l'applicazione di una pena da 2 a 5 anni alla donna che se lo fosse procurato (ammettendo delle attenuanti, nel caso di anomalia del nascituro, violenza carnale, condizioni economiche e sociali di eccezionale rilevanza).
In particolare erano i parlamentari della Sinistra indipendente, convinti che un problema del genere andasse affrontato senza scomuniche religiose né “impuntature ideologiche”, a rivolgere un appello al mondo politico per trovare comunque una soluzione. Dopo i tentativi di Gatto e Carettoni, nel 1976 La Valle lanciava una proposta per tentare un’uscita dalla situazione di stallo. L’aborto non doveva essere considerato una conquista civile, ma ci si doveva indirizzare più realisticamente verso una regolamentazione condivisa. Fuori dai casi di aborto strettamente terapeutico, la decisione non doveva spettare al medico, ma alla madre stessa, aiutata da un consultorio pubblico o convenzionato, dopo un periodo di riflessione di 10-12 giorni dal primo incontro. La socializzazione del problema avrebbe comunque promosso una crescita di solidarietà. Qualche tempo dopo, Gozzini precisava i termini della proposta, onde evitare di presentare l’intervento abortivo in chiave “consumistica”. Per il bene della società e della stessa Chiesa, occorrevano tre obblighi: per la donna, il ricorso ad una istanza pubblica; per il consultorio, un’adeguata offerta di sostegni reali dallo Stato; per la società, l’assunzione dei costi della gestazione condotta a termine, che in quel momento ricadevano purtroppo solo sulla donna. Si trattava, dunque, di una proposta che cercava di arginare l'ideologia abortista che aveva trovato espressione nelle proposte formulate dai movimenti radicali, dai femministi e in parte dai socialisti.
A contrastare questa nuova posizione erano subito “Comunione e liberazione” (che puntava alla riaffermazione di un soggetto politico cristiano intransigente) e il nascente “Movimento per la vita”, il quale scavalcava a destra la posizione del partito democristiano. L'Mpv di Casini presentava infatti un nuovo progetto di legge, la cui novità più rilevante era la costituzione di centri di accoglienza, non presso l'ente locale ma presso il giudice tutelare (composti da sei volontari, due medici, un assistente sociale e tre cittadini di sesso femminile e possibilmente con figli), che vigilassero affinché i consultori familiari svolgessero realmente la loro attività di prevenzione.
Il 18 maggio 1978, dopo un iter tormentato, veniva promulgata la “legge 194”, in base alla quale l’aborto, attuato in determinate condizioni, non era pi
ù perseguibile penalmente. La soluzione finale trovata rispettava l’autodeterminazione della donna, ma per andare incontro alle esigenze dei cattolici, il legislatore riconosceva espressamente il diritto di sollevare l'obiezione di coscienza. La legge era votata con 160 voti contro 148, da comunisti, socialisti, socialdemocratici, repubblicani, liberali e Sinistra indipendente, mentre avevano votato contro democristiani, missini, radicali e demo-proletari (questi ultimi due gruppi non erano contrari alla depenalizzazione
dell’aborto ma ai limiti che la legge poneva alla totale libert
à di abortire).
Subito dopo l'approvazione, l’argomento più scottante su cui si incentrò la polemica fu la presunta contraddizione in cui cadeva la legge nella concessione dell’obiezione di coscienza. La grande questione che rimaneva irrisolta era la seguente: fin dove doveva estendersi il rigoroso dovere morale di obiezione? All’intervento operatorio, all’attività dei consultori pubblici o anche alla certificazione medica prevista per ottenere l’aborto? La legge pareva prevederlo per tutte le attività indicate, ma già al Senato il problema
di una distinzione era stato richiamato dai democristiani.
Si paventava cos
ì il rischio di una vera e propria paralisi di interi reparti sanitari (continua)

(Tratto da:
“Il Riformista”,
poi ampliato nel volume: “
L’aborto in Italia. Storia di una legge” (Bruno Mondadori, Milano)

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Divorzio. A quarant'anni dalla legge, il dibattito è ancora aperto

Oggigiorno, di fronte all'arretratezza (più corretto sarebbe dire diversità) di certi costumi in uso nei paesi dell'Islam o davanti al palese non rispetto dei più elementari diritti civili in Estremo Oriente (si pensi a quello che sta accadendo in Birmania), sembriamo quasi esserci dimenticati che non più quarant'anni fa, qui in Italia, erano permesse, per legge, azioni che a ricordarle oggi sembrano impossibili. Per esempio, un marito poteva tranquillamente proibire alla moglie di uscire senza la sua compagnia e non era reato percuoterla qualora avesse disobbedito al suo ordine, oppure non commetteva abuso di esercizio della “potestà maritale” l'uomo che esigeva il sacrificio dell’attività professionale della moglie, o, ancora, una donna poteva essere legittimamente licenziata per causa di matrimonio o di maternità, o, finanche, l’adulterio era un reato punibile con la reclusione, solo che non veniva applicato lo stesso metro di giudizio tra uomo e donna. Lo stabilivano in maniera inconfutabile alcune sentenze della Corte di Cassazione negli anni sessanta. Per non parlare poi del delitto d'onore, reso celebre dal film Divorzio all'italiana.
In sostanza codice civile e penale risentivano, ancora negli anni settanta, l'influenza dei vecchi famigerati codici fascisti, e il diritto di famiglia era il tipico esempio di una normativa superata dalla realt
à, che si rifaceva ad usanze e tradizioni che risultavano del tutto anacronistiche, ed era paragonabile all'immagine di un gigantesco fossile o di un pachiderma la cui presenza veniva continuamente aggirata dallo Stato ma mai modificata secondo meccanismi più moderni e civili. Anche allora la classe dirigente del Paese stava a guardare. Sarebbe bene ricordarselo, proprio in questi mesi che si fa un gran parlare, sulla stampa, in televisione, su internet, di nuove tipologie di famiglia e di coppia, di diritti civili, di rapporti tra religione e politica, tra Stato e Chiesa.
Da un’analisi attenta emerge chiaramente che la vicenda che port
ò all'introduzione del divorzio nel nostro Paese, non è stata l'ideazione o il patrimonio esclusivo dei gruppi radicali e femministi, come troppo spesso si è portati a credere sulla base di analisi poco attente. Si è trattato, piuttosto, di una grande battaglia civile, che ha visto protagonisti sia i sopracitati gruppi "avanguardisti", ma anche le grandi masse dei partiti tradizionali, socialisti e comunisti da un lato, e cattolici dall'altro. Non vanno poi dimenticati l'influenza e il peso esercitati dalla Chiesa, contraria all'introduzione dell'istituto del divorzio per ovvi motivi. Emerge, da questa ricostruzione a tutto campo, un quadro complessivo molto diversificato, con posizioni non appiattite sul “si” o sul “no” al divorzio, che va oltre l'immagine contrapposta della folla proveniente da tutta Italia che si riuniva a Roma in piazza Cavour, davanti al “Palazzaccio” (proprio la sede della Corte di Cassazione) per gridare il proprio «sì» al divorzio, mentre, poco distante, il Papa si affacciava alla celebre finestra dei Palazzi vaticani per impartire l’apostolica benedizione ai tantissimi fedeli, ma più esplicitamente, per difendere la famiglia dagli assalti dei divorzisti. Sul fronte divorzista, per esempio, balzano all'occhio notevoli differenze.

divorzio
(Archivio Alinari)

Una cosa è, per esempio, la posizione dei gruppi femministi, della Lid, dei radicali, delle avanguardie intellettuali laiche come il gruppo de "L’Espresso" (che, ironicamente, nel delicato contesto, a rischio di democrazia, mentre infuriava la crisi economica nazionale e quella energetica internazionale, tra le bombe della strategia della tensione ed il piombo dei primi attentati dei brigatisti rossi, sulle sue pagine, parlava di trattative segrete e «messaggi aerei» tra Pci e Dc che, per compiere il tragitto da via delle Botteghe Oscure a Piazza Sturzo, percorrevano il tortuoso itinerario che passava da Piazza San Pietro, i cui protagonisti, come emerge dalle carte consultate, erano, nel linguaggio cifrato, il "rettore dell’Università", il "prete bianco" e il "motociclista", ovverosia nell'ordine Enrico Berlinguer, Paolo VI e il cardinale Giovanni Benelli).
Un'altra, ben pi
ù moderata, è la posizione dei più importanti quotidiani nazionali, a partire dal “Corriere della Sera”, e ancora diversa quella dei comunisti (già nella dirigenza si manifestarono divergenze, durante le riunioni di Direzione, tra la posizione di Berlinguer e quella di Giorgio Amendola) propensi alla trattativa per evitare rotture col mondo cattolico e la Chiesa, sollecitati dalle pressioni rivolte a Berlinguer dall'ex sindaco di Firenze, Giorgio La Pira, a stretto contatto con la Dc e con il Vaticano che sortirono il risultato concreto di alcune astensioni sul fronte divorzista, per esempio, durante il voto al Senato del 1969 (e come dimostrano per la prima volta
le lettere inedite pubblicate nel volume).
Diverse sono le posizioni espresse dai socialisti (divisi tra l’ala pi
ù battagliera di Loris Fortuna e quella più cauta di Francesco De Martino) e quelle del movimento dei cattolici democratici per il “no”, di Mario Gozzini, Pietro Scoppola, Raniero La Valle, Romano Prodi, o dai vari gruppi del dissenso religioso, come i Cristiani per il socialismo o le riviste di "controinformazione", che appoggiarono la battaglia sul divorzio, mentre l’associazionismo cattolico parve dividersi al suo interno (Azione cattolica, Acli, Fuci), e solo il nascente movimento di “Comunione e liberazione” decise di rimanere totalmente fedele alle indicazioni della gerarchia ecclesiastica e della Cei. Sul fronte antidivorzista, dentro la Chiesa, la posizione dell’episcopato stesso non si presentò univocamente contraria, come appariva pubblicamente e come spesso si tende a credere (per esempio, la posizione più "possibilista" del cardinale Michele Pellegrino, vescovo di Torino fu ben diversa da quella intransigente del resto delle alte gerarchie ecclesiastiche), così come si differenziò da quella portata avanti dai gesuiti, in parte propensi alla mediazione col fronte laico, o da Paolo VI, nonostante la sua presa di posizione in extremis (ma la vicenda si intrecciava sempre più alla generale questione della revisione del Concordato).
Anche dentro la Dc si evidenziarono posizioni difformi, in ogni caso, tendenti all’immobilismo: la sinistra democristiana di
Giovanni Galloni e Luigi Granelli, da un lato, la destra di Guido Gonella e Oscar Luigi Scalfaro, dall’altro, Giulio Andreotti a metà del guado, Amintore Fanfani nelle parti del “decisionista” (il quale sostenne che, dopo l'istituzione del divorzio, sarebbe stato possibile perfino il matrimonio tra omosessuali e, rivolgendosi agli elettori, dichiarò che le mogli avrebbero presto lasciato i mariti per scappare con qualche ragazzina), mentre Aldo Moro non riuscì ad ottenere, in quell’occasione, l’appoggio del suo partito, come si capisce bene dagli sviluppi dell’intricata vicenda dell’elezione alla presidenza della Repubblica di Leone nel 1971, quando, come emerge da verbali finora mai consultati, la Dc propose al Pci una sorta di tregua “armata” sul divorzio in cambio di un'astensione, mentre Berlinguer, in un incontro riservato, aveva proposto a Moro addirittura i voti comunisti e socialisti per la sua elezione al Quirinale.
Schierati apertamente contro il divorzio e a difesa della famiglia tradizionale erano, invece, il Msi e i comitati civici per il referendum sul divorzio, messi in piedi da alcuni intellettuali cattolici, intransigenti moralisti, in particolare il Cnrd di Gabrio Lombardi, che, alla vigilia del voto al referendum, profetizzava che se avessero vinto i divorzisti le industrie sarebbero state nazionalizzate, gli scrittori perseguitati, gli intellettuali dispersi nelle galere e nei manicomi e che i confini nazionali sarebbero stati aperti ai carri armati sovietici
». Il quadro tratteggiato nel volume mette in luce, in realtà, una società italiana molto diversificata, tutt'altro che riconducibile a schematiche categorie sociali schierate per il divorzio, o contrarie ad esso. Con l'ausilio degli articoli sui giornali dell'epoca, scandagliando i più importanti fondi archivistici dei partiti politici italiani, i volantini e gli opuscoli dei movimenti e dei variegati gruppi della società civile, con l'analisi dei documenti ufficiali della Chiesa e delle lettere inedite di molti dei diretti protagonisti, si ripercorrono le tappe di quella che rappresenta indubbiamente una delle pagine più importanti della storia della libertà di scelta nel nostro paese, in cui, per la prima volta, la società civile irrompe con forza e consapevolezza da protagonista sulla scena politica italiana, dimostrando, tra l'altro, anche allora, di essere ben più avanti della propria classe dirigente e della politica, sulla valutazione della tematica dei diritti civili come fondamentale termometro del livello di democrazia di un paese.
Una cosa la si pu
ò dire (non anticipiamo altro perché rimandiamo i lettori alla lettura del libro): la lunga e travagliata vicenda del divorzio, che aveva finalmente reso protagonista, per la prima volta, tutta la società italiana, non si chiuse, come molti pensano, con la vittoria dell'anticlericalismo. E' vero che si segnò il lento e inesorabile destino della cultura cattolica ufficiale come maggioritaria nel paese, è pur vero che il mondo cattolico si spaccò pubblicamente, per la prima volta, su un tema di così importanti risvolti civili, ma è anche vero che di lì a poco ci fu il ricompattamento dell'ala intransigente e del polo moderato del cattolicesimo italiano, contro l'affermazione della cosiddetta "società radicale" e contro la regolamentazione per legge dell'aborto. E quella vicenda non si chiuse neppure con la vittoria del libertinismo: gli italiani non abusarono affatto nell'utilizzo del divorzio, come dimostrano le statistiche, in particolare del periodo 1973-1978: se la curva dei divorzi s'impennò, dagli anni ottanta in poi, si tratta di un fenomeno legato direttamente alla crisi strutturale della famiglia, della società e della politica italiana e non certo all'attivazione dell'istituto del divorzio in sé. Quella vicenda rappresentò, ben più semplicemente, la vittoria del pluralismo e il normale approfondimento dei processi di modernizzazione e di secolarizzazione della società italiana, in linea con il percorso più generale, sviluppatosi, salvo qualche rara eccezione, in tutto l'Occidente.

(Tratto da: “Affari italiani”, poi ampliato nel volume, “Il divorzio in Italia.
Partiti, Chiesa, societ
à civile dalla legge al referendum” (Milano, Bruno Mondadori)

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Politica e partecipazione. "Fabbriche" di democrazia partecipativa

Non c’è dubbio che i mutamenti nella società e nelle istituzioni siano oggi così forti da imporre revisioni profonde di strumenti e di contenuti. La classe dirigente del Paese è sempre stata troppo impegnata alla conquista del consenso per poter riuscire ad accogliere i messaggi che provengono dalla base di una società in continuo mutamento. La politica si è fatta dunque più complessa e articolata di quanto non prevedessero i partiti. Esiste una società sommersa, sempre più numerosa e, all’interno di questa, un’ampia e variegata sinistra inquieta. In altri termini, è in atto una crisi di rappresentatività della società nel nostro sistema politico, che è l’altra faccia, ben al di là della gravissima questione morale, che è più sintomo che causa del crescente processo di delegittimazione istituzionale che viviamo in questi ultimi mesi.
Va premesso che questa crisi non solo del sistema dei partiti, ma anche della stessa forma partito, non pu
ò e non deve portare ad un indifferenziato rifiuto qualunquistico della funzione dei partiti. Occorre invece una più rigorosa analisi critica della sua involuzione e della degenerazione che si è manifestata in rapporto ai processi di secolarizzazione della società e di trasformazione sociale e culturale verificatisi dal ‘68 in poi. Parallelamente è necessaria una ridefinizione dei meccanismi di partecipazione e di rappresentanza politica. A tale proposito può essere interessante guardare alla diffusione sempre più contagiosa delle Fabbriche di Nichi, che sembrano proporre una prima risposta a questi problemi.
Lo spazio nuovo e proficuo del rapporto tra partiti e
società civile è da valorizzare proprio sul versante dell’interazione tra processi dell’innovazione sociale e del sistema politico. L’obiettivo di un soggetto mediatore di questo tipo dovrebbe essere quello di riuscire a coinvolgere nell’elaborazione di una progettualità politica alternativa forze che di fatto sono o intendono restare esterne ed autonome rispetto al raggio di azione dei partiti. Insomma un pezzo di società che interagisce direttamente con i gruppi dirigenti, che diventa partecipe di un progetto politico. È dunque necessario individuare e far crescere nuove forme di rappresentanza rispetto a quei movimenti e soggetti sociali, ecologismo, pacifismo, femminismo, diritti civili e umani, che si manifestano nella società, ma che non riescono ancora a realizzare una positiva dialettica col sistema politico-istituzionale.
In questo ambito rientrano anche tutti quei gruppi e movimenti cattolici, una vera riserva di energie, in piena secolarizzazione e nel tempo della onnipotente impotenza della politica, che si richiamano all’esperienza tradita del Concilio Vaticano II, sottolineando la centralit
à della legalità, di una cultura di solidarietà e di corresponsabilità, dell’attenzione al lavoro. Sono tutti spezzoni di un discorso alternativo che la politica oggi non sa coinvolgere. Ed è necessario che qualcuno si faccia promotore e interlocutore di queste istanze innovative. Occorre liberare le diversità che la politica non sa prendere in considerazione.

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(Archivio personale)

Le “Fabbriche”, dalla Puglia, si sono diffuse in tutta Italia. Sono fatte essenzialmente da giovani, molti dei quali non hanno esperienze partitiche alle spalle. Non sono, come molti pensano, un semplice comitato elettorale, né la cinghia di trasmissione di Sinistra e Libertà, ma spazi in cui circolano idee, richieste, appelli, proteste su problemi diversi, ma riconducibili ad un’aspirazione al rigore morale, alla giustizia, all’innovazione, alla sostenibilità ambientale, alla creatività, ad un progetto di alternativa vera alle connivenze dell’attuale classe dirigente del Paese. A parte il riferimento costante alla figura di Vendola, con tutti i rischi del leaderismo, c’è però un elemento di vitalità e di spontaneità, che, se valorizzato, potrebbe fare di esse un canale per ricevere e non solo per trasmettere politica, uno strumento per imparare a capire la nuova cittadinanza. In molti dei partecipanti della Fabbrica è riscontrabile un implicito dissenso critico all’attuale impostazione dei partiti. Per mutare, tuttavia, bisogna introdurre elementi nuovi, non presenti finora. Questo può accadere solo attraverso una ricognizione attiva e ricettiva in tutti i settori nuovi del mondo del lavoro, ma anche in quelli tradizionali dove emergono comunque nuove percezioni, altre culture e stili di vita.
In breve, le Fabbriche, suscitando partecipazione, promuovendo forme reali di confronto, creando una rete condivisa di informazioni e buone pratiche, rappresentano un modo di fare politica senza divenire schiavi della politica. Il punto
è utilizzare nel modo migliore e più virtuoso, anche a livello mediatico e comunicativo, quella posizione di interfaccia di ambienti ed esperienze sociali e culturali per produrre innovazione nelle idee e trasferirle nella dimensione della politica di ogni giorno.
Negli ultimi anni le cose sono molto cambiate per le nuove generazioni: non si tratta di contestare o di voler cambiare il mondo a parole, ma siamo oggi in un fase di formazione di una capacit
à di governo anche da parte delle forze giovanili. Chi partecipa ai laboratori delle fabbriche rimane stupito dalla eterogeneità e varietà di interessi, storie personali, competenze: il fabbricante è a volte uno studente o un dottorando, altre volte un precario o un normale cittadino incuriosito dal fenomeno della partecipazione diretta nel territorio. Molto spesso è donna. È, in ogni caso, un valore aggiunto, che può portare ad un livello di maggiore elaborazione le richieste della cittadinanza critica e le stesse proposte dei partiti. Ma è anche, seppure spesso inconsapevolmente, un animale politico come gli altri. La sua caratteristica dovrebbe allora essere quella di fare politica senza curarsi delle mediazioni cui è costretto il lavoro quotidiano del partito, di non avere bisogno di mandare segnali alle altre forze politiche. Senza una struttura verticistica, la Fabbrica è un gruppo di volontari che diventa catalizzatore di energie altrimenti disperse.
Una cosa
è certa: oggi non siamo più nella stagione della certezza, ma in quella della ricerca. La politica non è più in grado di fornire garanzie ai cittadini, occorre dunque rifondarla. Aggiungo un’avvertenza. Quella giovanile è una risorsa immensa che non va sprecata, né tanto meno strumentalizzata. Sarebbe pericoloso utilizzare queste energie come uno strumento che consente di non affrontare alcune difficoltà che i partiti incontrano nei loro rapporti con determinati ambienti sociali. Al momento, le “Fabbriche” funzionano come fattore di modernizzazione della politica, ma soprattutto sul versante dell’opinione elettorale, della socializzazione politica e dei relativi meccanismi di identificazione ad un leader, ma anche qui in modo insufficiente, e soprattutto casuale, non programmato, anche se vincente. Non funzionano invece, se non indirettamente e per eccezionali coincidenze, come fattore di modernizzazione dei processi decisionali della politica.
La mia tesi
è che le “Fabbriche”, e in generale tutti laboratori sociali e culturali, andrebbero valorizzati al massimo come fattori di decisione politica. Acquisire ad una funzione decisionale sedi non burocratiche, darebbe il vantaggio di arricchire di spessore analitico-culturale la scelta politica e di avvicinare all’impegno diretto coloro che ne rimangono volontariamente ai margini. Sottrarrebbe inoltre l’attività dei centri socio-culturali alla tentazione dell’astrattezza inconcludente e del velleitarismo. La riforma moderna della politica infatti non può essere la somma algebrica di esperienze locali, di linguaggi settoriali e specialistici, spesso non comunicanti tra loro. Formalmente i gruppi di questo tipo restano un assemblaggio di individualità, dove la professionalità soggettiva non incide efficacemente sulla società a cui si rivolge. È oggi quantomai necessaria una forma di elaborazione socio-culturale in cui linguaggi ed esperienze si confrontino e si concretizzino in una scelta politica comune, in un progetto di ampio respiro, sia pure senza intaccare la libertà di ciascuno.
(Tratto da:
“Adista - Segni nuovi”, n. 96)

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