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Fabbriche di Nichi: a chi giova il funerale anzitempo?

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(Archivio personale)


«Le fabbriche utili per il voto, ma la politica è nei partiti» - Corriere del Mezzogiorno 16/06/2011.
Fratoianni liquida l'esperienza:
«Ora vengano in Sel».


Tempo fa avevo scritto sulle "fabbriche" come di un possibile mezzo, nuovo e fresco, di partecipazione giovanile alla politica, come di una speranza. Ora l'esperimento viene chiuso nel peggiore dei modi, dall'alto, con una dichiarazione. Fine dell'ennesima illusione a sinistra. Quantomeno si è usciti dall'ambiguità ed è stata fatta chiarezza.


Si veda, in proposito:
Politica e partecipazione. “Fabbriche” di democrazia partecipativa

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A ferragosto, qualche pensiero su questa politica

Dopo aver trascorso una ventina di giorni a "disintossicarmi" da un certo ordine di problemi, come la politica e le prime pagine dei giornali, che ci coinvolge in prima persona per ovvi motivi, non solo come cittadini ma anche come osservatori della società contemporanea, mi preme sottoporre all'attenzione degli amici alcune brevi osservazioni sull'evolversi della situazione del nostro paese. E visto che ormai di centro-destra, dopo gli scandali, le denunce e gli scontri all'ultimo sangue, si parla sempre, è forse più utile concentrarsi per un attimo sulla situazione del centro-sinistra, e in particolare, del suo partito più consistente elettoralmente, ovvero il Pd. Affrontando almeno due aspetti: la selezione della sua classe dirigente e del suo leader e la stesura di un programma davvero di sinistra alternativo e convincente. A questo punto però va fatta una premessa di carattere generale. E riguarda la questione che si pone : andare o meno, quanto più rapidamente, alle elezioni anticipate. Berlusconi e Bossi le sbandierano per impaurire i settori più moderati dell'opposizione, Di Pietro, Vendola e le sinistre più radicali le invocano per fare una sorta di pulizia generale affidata agli elettori. In mezzo a questi ci sta tutto un mondo, una sorta di palude, che vuole invece cercare il modo di evitarle o comunque di posticiparle per traghettare il paese verso le riforme, verso una ripresa economica e per far vivacchiare ancora per qualche tempo i propri parlamentari (diciamolo pure!). E in questa prospettiva i vertici del Pd, contando sulla imparzialità istituzionale della Presidenza della Repubblica, spinta per dovere costituzionale a sondare qualsiasi ipotesi fattibile prima di sciogliere le camere, hanno proposto la carica di una Presidenza del Consiglio di transizione o di "responsabilità nazionale", come si usa dire di recente, prima a Tremonti, poi a Casini, a Draghi, a Montezemolo, e chi più ne ha più ne metta. Andare a elezioni anticipate in questa situazione, senza aver modificato quantomeno la legge elettorale, appare un grande rischio, perché Berlusconi, puntando tutto sull'enorme disparità mediatica, potrebbe trasformare la campagna elettorale, come al solito, in un plebiscito a suo favore, e peraltro nell'ipotesi di tre grandi coalizioni (o anche di più), rischierebbe davvero di prendere tutto con un jolly (cioè a dire di nuovo il governo), per una manciata di voti a suo favore. Però è anche vero che non appare fattibile una nuova legge elettorale senza l'avallo di gruppi parlamentari consistenti numericamente come il Pdl e la Lega. Quindi l'idea di un governo tecnico per modificare la legge appare anch'essa poco percorribile. A questo punto rimarrebbe una soluzione più sbrigativa in termini temporali e probabilmente anche più chiara per gli elettori. Non è necessario infatti che si formi un governo tecnico per fare una nuova legge elettorale, ma basterebbe che un'opposizione unita e compatta, compresi i casiniani, i rutellini e ora anche i finiani, si mettesse d’accordo sulla proposta di un semplice disegno di legge, chiedendone la discussione parlamentare. In tal modo i berlusconiani e i bossiani sarebbero costretti ad opporsi in parlamento, si aprirebbe una crisi vera, la gente saprebbe finalmente come stanno le cose e chi si oppone davvero al cambiamento politico, e così si arriverebbe a una fase che potrebbe portare o alla formazione di un governo tecnico, però con un chiaro mandato, ovvero quello di modificare la legge elettorale (cosa molto più probabile tenuto conto della volontà della presidenza della repubblica) oppure al voto senza se e senza ma. In entrambi i casi però il ruolo che assumerebbe la posizione del Pd diventa di cruciale importanza. A prescindere, infatti, dalle due possibili soluzioni alternative, il Pd dovrebbe, a partire da oggi, cioè a dire da ferragosto, anziché bivaccare in spiaggia, pensando a possibili inciuci autunnali o, come amano tanto D'Alema e Casini, cioè a tessere nell'ombra dialogando con poteri più o meno forti, stabilire finalmente una linea coerente e chiara. La parola chiave è mobilitazione: andare a cercare le persone porta a porta, martellare su tutti i giornali, in rete, in tv (per quanto possibile), coinvolgere, chiamando a raccolta tutta quella gente (che è davvero tanta ormai) che ne ha le scatole piene di queste beghe del centro-destra e di questo modo di mal-governare sulla testa dei cittadini. Un grande partito come il Pd dovrebbe, per il patrimonio culturale e politico che ha ereditato, formulare un programma sintetico, chiaro e coerente di sinistra, e non pensare esclusivamente a garantirsi la rielezione dei propri dirigenti, eletti peraltro senza l'approvazione dei propri elettori ma dall'alto, in perfetto stile berlusconiano. Dovrebbe, in primis, mettere al centro della propria azione politica di contrasto e di alternativa inequivocabile a questo governo alcuni punti-chiave. In parte lo sta iniziando a fare, come sul tema della legalità (qui sollecitato dal gruppo di Repubblica e da alcuni magistrati avvertiti, pungolato poi da quello che è il cavallo di battaglia di Di Pietro). O come sul tema del lavoro, sollecitato soprattutto da Vendola. O ancora come sul tema del federalismo e della politica economica, spinto da Chiamparino. Tutte queste personalità insieme, cioè a dire Di Pietro, Vendola, Chiamparino, Bersani, rappresentano, ognuno nel suo modo specifico, più o meno condivisibile singolarmente, ma comunque delle risorse formidabili, da valorizzare imprescindibilmente attraverso le primarie. Come ha sostenuto intelligentemente Pasquino (studioso ed ex parlamentare della Sinistra indipendente tra la fine degli anni settanta e gli anni ottanta, argomento che sto studiando in questi ultimi mesi) sarebbe auspicabile che il Pd utilizzasse le primarie non solo per scegliere il leader, ma anche per la selezione dei suoi candidati in parlamento (da indire in maniera selettiva e in casi particolari, per esempio quando secondo gli elettori un parlamentare ha fatto male il suo lavoro nel precedente mandato), abbandonando il metodo della scelta pilotata dai più importanti dirigenti e basata esclusivamente se non sulla parentela, quantomeno sulla simpatia, sul tempo della militanza (cioè a dire più francobolli hai attaccato da giovane per il partito più hai possibilità di farti candidare) , elementi che non sono certo garanzia di un gruppo parlamentare competente e adeguato (neppure organizzare centri studi, istituti culturali, campi estivi e fondazioni varie si è dimostrato, dalla storia del pds in poi, un metodo efficace di formazione della classe dirigente). Insomma un partito degno di questo nome dovrebbe comunicare con i propri elettori (reali, potenziali, quindi quelli che si sono astenuti, e anche con gli elettori delusi dell'avversario) attraverso la formulazione di un programma, la diversificazione delle idee e la loro promozione da parte dei diversi candidati, e poi attraverso il metodo conclusivo della scelta attraverso le primarie. Semplicemente questo e null'altro esso dovrebbe fare. Infine, qualcosa di più sul programma. A parte i già citati punti imprescindibili, cioè legalità, questione morale, lavoro e politica economica, occorrerebbe aggiungere almeno due ordini di problemi: beni comuni e diritti civili. Su questo terreno dovrebbe giocarsi la demarcazione forte rispetto al futuro centro-destra. Come ha sottolineato argutamente Rodotà (altro insigne studioso e anch'egli ex parlamentare della Sinistra indipendente), i beni comuni appartengono a tutti e a nessuno, nel senso che tutti devono poter accedere ad essi e nessuno può vantare pretese esclusive, perchè patrimonio dell'umanità: acqua, energia, conoscenza (internet ma non solo). I diritti civili, quindi l'uguaglianza tra coppie sposate e di fatto, tra eterosessuali e omosessuali, il ricorso eventuale alla pillola abortiva, la fecondazione assistita, la possibilità di morire in certi casi limite secondo la propria volontà, etc. rappresentano elementi decisivi e cruciali in una società del futuro auspicabilmente più democratica. Il dibattito è aperto, si tratta semplicemente di iniziare a coinvolgere su queste problematiche, con il porta a porta, stanando la gente dal suo torpore a dal suo pessimismo, organizzando incontri e tavole rotonde, richiamando più persone possibile, in modo da sensibilizzarle, da renderle partecipi di scelte che determineranno le loro stesse sorti e soprattutto quelle dei propri figli. Diamoci dentro, dunque, e ritroviamoci al più presto, insieme, alle prossime battaglie di democrazia.
Buon ferragosto e buon proseguimento di estate a tutti.

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(Archivio personale)

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Politica e partecipazione. "Fabbriche" di democrazia partecipativa

Non c’è dubbio che i mutamenti nella società e nelle istituzioni siano oggi così forti da imporre revisioni profonde di strumenti e di contenuti. La classe dirigente del Paese è sempre stata troppo impegnata alla conquista del consenso per poter riuscire ad accogliere i messaggi che provengono dalla base di una società in continuo mutamento. La politica si è fatta dunque più complessa e articolata di quanto non prevedessero i partiti. Esiste una società sommersa, sempre più numerosa e, all’interno di questa, un’ampia e variegata sinistra inquieta. In altri termini, è in atto una crisi di rappresentatività della società nel nostro sistema politico, che è l’altra faccia, ben al di là della gravissima questione morale, che è più sintomo che causa del crescente processo di delegittimazione istituzionale che viviamo in questi ultimi mesi.
Va premesso che questa crisi non solo del sistema dei partiti, ma anche della stessa forma partito, non pu
ò e non deve portare ad un indifferenziato rifiuto qualunquistico della funzione dei partiti. Occorre invece una più rigorosa analisi critica della sua involuzione e della degenerazione che si è manifestata in rapporto ai processi di secolarizzazione della società e di trasformazione sociale e culturale verificatisi dal ‘68 in poi. Parallelamente è necessaria una ridefinizione dei meccanismi di partecipazione e di rappresentanza politica. A tale proposito può essere interessante guardare alla diffusione sempre più contagiosa delle Fabbriche di Nichi, che sembrano proporre una prima risposta a questi problemi.
Lo spazio nuovo e proficuo del rapporto tra partiti e
società civile è da valorizzare proprio sul versante dell’interazione tra processi dell’innovazione sociale e del sistema politico. L’obiettivo di un soggetto mediatore di questo tipo dovrebbe essere quello di riuscire a coinvolgere nell’elaborazione di una progettualità politica alternativa forze che di fatto sono o intendono restare esterne ed autonome rispetto al raggio di azione dei partiti. Insomma un pezzo di società che interagisce direttamente con i gruppi dirigenti, che diventa partecipe di un progetto politico. È dunque necessario individuare e far crescere nuove forme di rappresentanza rispetto a quei movimenti e soggetti sociali, ecologismo, pacifismo, femminismo, diritti civili e umani, che si manifestano nella società, ma che non riescono ancora a realizzare una positiva dialettica col sistema politico-istituzionale.
In questo ambito rientrano anche tutti quei gruppi e movimenti cattolici, una vera riserva di energie, in piena secolarizzazione e nel tempo della onnipotente impotenza della politica, che si richiamano all’esperienza tradita del Concilio Vaticano II, sottolineando la centralit
à della legalità, di una cultura di solidarietà e di corresponsabilità, dell’attenzione al lavoro. Sono tutti spezzoni di un discorso alternativo che la politica oggi non sa coinvolgere. Ed è necessario che qualcuno si faccia promotore e interlocutore di queste istanze innovative. Occorre liberare le diversità che la politica non sa prendere in considerazione.

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(Archivio personale)

Le “Fabbriche”, dalla Puglia, si sono diffuse in tutta Italia. Sono fatte essenzialmente da giovani, molti dei quali non hanno esperienze partitiche alle spalle. Non sono, come molti pensano, un semplice comitato elettorale, né la cinghia di trasmissione di Sinistra e Libertà, ma spazi in cui circolano idee, richieste, appelli, proteste su problemi diversi, ma riconducibili ad un’aspirazione al rigore morale, alla giustizia, all’innovazione, alla sostenibilità ambientale, alla creatività, ad un progetto di alternativa vera alle connivenze dell’attuale classe dirigente del Paese. A parte il riferimento costante alla figura di Vendola, con tutti i rischi del leaderismo, c’è però un elemento di vitalità e di spontaneità, che, se valorizzato, potrebbe fare di esse un canale per ricevere e non solo per trasmettere politica, uno strumento per imparare a capire la nuova cittadinanza. In molti dei partecipanti della Fabbrica è riscontrabile un implicito dissenso critico all’attuale impostazione dei partiti. Per mutare, tuttavia, bisogna introdurre elementi nuovi, non presenti finora. Questo può accadere solo attraverso una ricognizione attiva e ricettiva in tutti i settori nuovi del mondo del lavoro, ma anche in quelli tradizionali dove emergono comunque nuove percezioni, altre culture e stili di vita.
In breve, le Fabbriche, suscitando partecipazione, promuovendo forme reali di confronto, creando una rete condivisa di informazioni e buone pratiche, rappresentano un modo di fare politica senza divenire schiavi della politica. Il punto
è utilizzare nel modo migliore e più virtuoso, anche a livello mediatico e comunicativo, quella posizione di interfaccia di ambienti ed esperienze sociali e culturali per produrre innovazione nelle idee e trasferirle nella dimensione della politica di ogni giorno.
Negli ultimi anni le cose sono molto cambiate per le nuove generazioni: non si tratta di contestare o di voler cambiare il mondo a parole, ma siamo oggi in un fase di formazione di una capacit
à di governo anche da parte delle forze giovanili. Chi partecipa ai laboratori delle fabbriche rimane stupito dalla eterogeneità e varietà di interessi, storie personali, competenze: il fabbricante è a volte uno studente o un dottorando, altre volte un precario o un normale cittadino incuriosito dal fenomeno della partecipazione diretta nel territorio. Molto spesso è donna. È, in ogni caso, un valore aggiunto, che può portare ad un livello di maggiore elaborazione le richieste della cittadinanza critica e le stesse proposte dei partiti. Ma è anche, seppure spesso inconsapevolmente, un animale politico come gli altri. La sua caratteristica dovrebbe allora essere quella di fare politica senza curarsi delle mediazioni cui è costretto il lavoro quotidiano del partito, di non avere bisogno di mandare segnali alle altre forze politiche. Senza una struttura verticistica, la Fabbrica è un gruppo di volontari che diventa catalizzatore di energie altrimenti disperse.
Una cosa
è certa: oggi non siamo più nella stagione della certezza, ma in quella della ricerca. La politica non è più in grado di fornire garanzie ai cittadini, occorre dunque rifondarla. Aggiungo un’avvertenza. Quella giovanile è una risorsa immensa che non va sprecata, né tanto meno strumentalizzata. Sarebbe pericoloso utilizzare queste energie come uno strumento che consente di non affrontare alcune difficoltà che i partiti incontrano nei loro rapporti con determinati ambienti sociali. Al momento, le “Fabbriche” funzionano come fattore di modernizzazione della politica, ma soprattutto sul versante dell’opinione elettorale, della socializzazione politica e dei relativi meccanismi di identificazione ad un leader, ma anche qui in modo insufficiente, e soprattutto casuale, non programmato, anche se vincente. Non funzionano invece, se non indirettamente e per eccezionali coincidenze, come fattore di modernizzazione dei processi decisionali della politica.
La mia tesi
è che le “Fabbriche”, e in generale tutti laboratori sociali e culturali, andrebbero valorizzati al massimo come fattori di decisione politica. Acquisire ad una funzione decisionale sedi non burocratiche, darebbe il vantaggio di arricchire di spessore analitico-culturale la scelta politica e di avvicinare all’impegno diretto coloro che ne rimangono volontariamente ai margini. Sottrarrebbe inoltre l’attività dei centri socio-culturali alla tentazione dell’astrattezza inconcludente e del velleitarismo. La riforma moderna della politica infatti non può essere la somma algebrica di esperienze locali, di linguaggi settoriali e specialistici, spesso non comunicanti tra loro. Formalmente i gruppi di questo tipo restano un assemblaggio di individualità, dove la professionalità soggettiva non incide efficacemente sulla società a cui si rivolge. È oggi quantomai necessaria una forma di elaborazione socio-culturale in cui linguaggi ed esperienze si confrontino e si concretizzino in una scelta politica comune, in un progetto di ampio respiro, sia pure senza intaccare la libertà di ciascuno.
(Tratto da:
“Adista - Segni nuovi”, n. 96)

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