Vincono i no sulla 194 e l'ergastolo. Gli italiani chiedono maggiore sicurezza

Dopo l’entrata in vigore della legge, a detta della stampa laica pareva avesse avuto inizio l’era della libera civiltà, mentre da parte cattolica sembrava fosse iniziata l’epoca dell’anarchia più sfrenata. Ma a parte i soliti eccessi verbali, si trattava, piuttosto, di fare in modo che le procedure previste dalla legge venissero applicate, subito e nel migliore dei modi, dagli enti locali e dalle Regioni. In effetti, la legge era stata approvata in un'atmosfera molto tesa, con un Paese che sembrava quasi non accorgersene, preso com’era dal sequestro, dall'uccisione di Moro e dalla crisi economica (che aveva visto, dopo l’instaurazione del doppio sistema del cambio, l’aumento dei prezzi, la svalutazione della lira, la costante crescita dell’inflazione), scosso, di lì a poco, dalle dimissioni del presidente della Repubblica Leone, e dalla morte di ben due Papi, con l’elezione di Giovanni Paolo II.
Iniziava cos
ì, a partire dal 1979, tutta una serie di attacchi alla legge “194”, da parte del mondo cattolico quanto dei radicali, che lasciava presagire che la battaglia sull'aborto si sarebbe rilevata molto più dura e lunga del previsto.
Agli inizi del 1980, alcuni dati, a livello europeo e mondiale, apparivano per
ò incontrovertibili. La Francia, che aveva messo in prova per cinque anni la sua legge del 1974, l'aveva resa definitiva perché l'esperienza passata dimostrava che, con le garanzie sanitarie, il tasso di complicazioni relative agli aborti era diminuito di più del 50%, ed era sparito quasi del tutto quello di mortalità. Nell’ultimo decennio, inoltre, ben trenta paesi avevano introdotto la legalizzazione dell’aborto: dal Regno Unito (1967) alla Danimarca (giugno 1973), dalla Repubblica Federale tedesca (giugno 1976) all’Italia (giugno 1978). Nella Comunità europea rimanevano ancora legati a leggi restrittive sull’aborto solamente il Belgio e l’Irlanda, mentre perfino le “cattolicissime” nazioni, Spagna e Portogallo, avevano posto la questione all’ordine del giorno. Secondo le valutazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, erano comunque quasi 50 milioni, ogni anno, gli aborti nel mondo, almeno 20 milioni dei quali clandestini. Malgrado questa cifra impressionante, alla fine del 1979, l’aborto non occupava più il primo posto, ma il terzo, come strumento di controllo delle nascite, dopo la sterilizzazione volontaria e la contraccezione (il problema assumeva però dimensioni catastrofiche in tutti quei paesi dove, per motivi religiosi o legislativi, l’aborto non era sotto controllo medico,
in particolare in America Latina, nel Medio e nell'Estremo Oriente).

Alla fine del 1980, si profilava il successo della raccolta di firme per un referendum contro la legge, messa in atto da parte dell'Mpv, con ben due milioni di consensi, espressione della protesta popolare del mondo cattolico. Il primo referendum dei cattolici intransigenti, quello “massimale”, richiedeva il divieto di aborto in generale, ad eccezione del pericolo di vita per la madre. In questo caso le obiezioni del fronte opposto si incentravano sul rischio del cosiddetto vuoto legislativo. Per questa ragione l'Mpv aveva presentato una seconda proposta di referendum, “minimale”, che proponeva non la soppressione ma la riduzione del diritto d’aborto (art. 4,5 e parzialmente del 6 della legge). Anche in questo modo veniva comunque azzerata la legge “194” nell’autodeterminazione della donna e si ammetteva soltanto l’aborto terapeutico, stabilito dal medico, prevedendo un ritorno alla legislazione precedente. Esisteva però, sul fronte opposto, una richiesta di referendum da parte dei radicali, che mirava a raggiungere la piena liberalizzazione dell’aborto, mentre da parte socialista, il deputato Fortuna segnalava quelle che gli parevano due delle carenze più gravi della legge: il problema delle minorenni che potevano abortire esclusivamente col consenso del padre o del giudice tutelare, e l’esclusione della possibilità di abortire nelle case di cura private.
La questione dell’aborto, che aveva sviluppato un vasto dibattito tra i partiti e nella Chiesa, in prossimità della data del referendum, diventava un tema sempre più appassionato di discussione nella società civile, sentito, per ovvie ragioni, in particolare dal movimento delle donne. Il movimento femminista era andato incontro ad una sostanziale modificazione: dalla prima fase più estremista, era passato, gradualmente, ad una seconda fase, più meditata, di radicamento culturale nella società, deciso a difendere la legge e a migliorarla, senza però farsi intrappolare nello schema riduttivo del “si o no”. Dall'unità di intenti di questi gruppi della società, dei partiti politici della sinistra tradizionale e dei cattolici democratici indipendenti, sarebbe nata la mobilitazione
a favore del mantenimento della legge durante la campagna referendaria.

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(Archivio Alinari)

Intanto, dopo la discesa in campo di Papa Wojtyla contro la legge, si incrementavano gli appelli dei vescovi, delle parrocchie (molti parroci tenevano discorsi non solo dai pulpiti, ma addirittura dai palchi predisposti nelle piazze) e delle organizzazioni cattoliche per il “s
ì”. Nel Sud d'Italia si moltiplicavano le processioni che si concludevano con veri e propri comizi a favore del referendum proposto dall'Mpv; in qualche caso estremo, anche la statua del santo patrono sfilava incoronata da un cartello con su scritto “Vota sì”.
I risultati del referendum del 17-18 maggio 1981, preceduto dall'attentato al Papa (che contribuì a svelenire le polemiche), furono netti: il “no” contro la proposta radicale di revisione della legge ottenne l’88,5%,
mentre quello contro la proposta dell'Mpv raggiunse il 67,9%.

I voti referendari mettevano in evidenza gli effetti della secolarizzazione della società italiana. Gli italiani avevano votato contro le tentate imposizioni della Chiesa su un argomento di così rilevante carica morale e civile. Non solo era stata messa in gioco, dopo la precedente sconfitta sul divorzio, l’incidenza politica della Chiesa in Italia, ma la sua stessa influenza culturale. Colpiva, infatti, la quasi coincidenza tra le percentuali provvisorie dei “sì”, intorno al 30%, e i dati relativi alla partecipazione alla messa domenicale che, dal 69% del 1950, erano calati al 28% circa del 1980. L’opinione pubblica aveva rivelato, inoltre, una notevole misura di autonomia dai partiti, a fronte di un loro eccessivo coinvolgimento, con forme visibili di politicizzazione, durante la campagna referendaria.
Il voto non era solo la conseguenza di un'affermazione di libertà, pluralismo e autodeterminazione, ma poteva essere letto anche come motivo di preoccupazione per l'indifferenza che toccava non solo la sensibilità religiosa, ma anche quella civile. Una chiara contraddizione era infatti la contemporanea vittoria del “no” all’abrogazione dell’istituto dell’ergastolo. Se davvero il referendum sull’aborto avesse avuto quelle motivazioni culturali e civili che i vincitori gli avevano attribuito, la vittoria avrebbe dovuto essere accompagnata dall’abrogazione dell’ergastolo e non dalla sua conservazione a schiacciante maggioranza. Per la verità, l’appoggio popolare alla possibilità di abortire in strutture sanitarie statali e la funzione deterrente dell’ergastolo contro i delitti più gravi rappresentavano una crescente richiesta di sicurezza da parte degli italiani, che dimostravano il disinteresse verso problemi morali e di principio, e mettevano in evidenza sempre più quel “vuoto etico” verso il quale il recente processo di secolarizzazione, pur benefico e positivo per certi punti di vista, aveva spinto il Paese.

(Tratto da: “Il Riformista”,
poi ampliato nel volume: “
L’aborto in Italia. Storia di una legge” (Bruno Mondadori, Milano)

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