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La globalizzazione e la guerra

La globalizzazione e la guerra

Una visione di lungo periodo e possibilmente dialettica della globalizzazione trova riscontri anche nell’ambito più propriamente geo-politico. A differenza della lettura «filosofica» della globalizzazione che punta sulla cosiddetta «morte della distanza» e «fine dello stato-nazione», sostituito da un impero globale su scala planetaria, questo genere di analisi mette in evidenza l'aumento progressivo dell’instabilità internazionale, acuita dalla crisi internazionale apertasi col terrorismo internazionale, in particolare con gli attacchi dell’11 settembre 2001, ma fondata, quotidianamente, su processi ben precedenti e strettamente legati alla fine dei regimi comunisti, al risorgere delle ideologie nazionaliste a sfondo religioso, che animano buona parte di quei paesi.
E' soffiando sul fuoco della polemica che il politologo Huntington fonda la sua tesi sullo
«scontro di civiltà» [Huntington 1997] e prospetta un approccio «realista» alla storia delle relazioni internazionali in cui si fronteggiano non più gli stati e i loro interessi nazionali (con le loro alleanze, i loro rapporti di forza) ma indifferenziati blocchi culturali-religiosi, contraddistinti da identità assai più antiche di quelle della guerra fredda e quindi ancora più immobili, monolitiche, non negoziabili.
D’altra parte, gli Stati Uniti, dopo la guerra fredda, manifestano una posizione sempre pi
ù unilateralista, pronta a sfidare il pericolo di un nuovo isolamento, dall’alto della propria indiscussa superiorità economica e militare. Dopo l’11 settembre, infatti, il bilancio della difesa statunitense è stato incrementato fino a raggiungere, nel 2002, ben 343 miliardi. Dal canto suo, la Russia, la seconda nazione in termini di spese militari, rappresenta meno di un quinto della potenza bellica statunitense
(64 miliardi di dollari), con proporzioni a dir poco impensabili soltanto qualche decennio fa.
Se per
ò mettiamo in atto una comparazione in chiave storica, ad una più attenta analisi è possibile valutare meglio le nuove gerarchie del potere mondiale e scoprire importanti differenze rispetto al passato. Nel 1900, le spese militari britanniche raggiungevano, proporzionalmente, dimensioni non molto diverse da quelle statunitensi attuali, che sembrerebbero ribadire la validità della tesi della continuità di un’economia-mondo capitalistica gravitante attorno a un centro sia economico-finanziario sia militare. Ma esaminate lungo un arco cronologico più ampio, per esempio partendo dal 1890, le stesse spese militari britanniche appaiono assai meno imponenti di quelle degli Stati Uniti attuali (corrispondevano a circa la metà di quelle russe ed erano più o meno simili a quelle di Francia e Germania), mentre alla vigilia della Grande Guerra, arrivano ad essere paragonabili a quelle francesi, tedesche e russe. Le cifre sulle spese militari britanniche del 1900 non sono dunque così qualificanti e sono destinate, nel giro di qualche decennio ad essere rimesse in discussione da un maggiore equilibrio militare a livello europeo. Inoltre, a differenza di quella statunitense, la supremazia britannica di un secolo fa non si fonda sul controllo esclusivo di tecnologie particolari (si pensi ai cacciabombardieri invisibili statunitensi o alle cosiddette «bombe intelligenti) o di programmi di ricerca scientifica, bensì sull’attuazione sistematica di programmi di riarmo estensivo (flotta navale, corazzate). Il distacco sul piano strategico militare operato dagli Stati Uniti nei confronti di tutte le altre potenze europee ha il suo inizio subito dopo la sconfitta americana in Vietnam ed ha il suo culmine negli anni Ottanta, con la cosiddetta «Strategic Defense Iniziative», meglio nota come «guerre stellari» di Reagan. Va detto che accanto alla supremazia militare, a partire dalla seconda metà degli anni Novanta, una accentuata instabilità accompagna l’indiscussa leadership del dollaro nelle relazioni commerciali internazionali.
Un'altra importante differenza sta nei diversi equilibri internazionali: se
è vero che al posto degli Stati Uniti odierni c'era la Gran Bretagna che alla fine del secolo scorso era capace di esprimere un’egemonia intercontinentale fondata su un impero coloniale senza rivali, non va dimenticato che dai 40 stati del 1900 si è passati ai circa 180 stati attuali.

globalizzazione
(Archivio Alinari)

In definitiva dunque la globalizzazione economica si accompagna a una evidente frammentazione del sistema delle relazioni internazionali, con la moltiplicazione delle aree integrate commerciali (come Nafta, Mercosur e Unione Europea), delle medie potenze regionali in grado di mirare a pericolose politiche egemoniche ed espansive (come Iran o Pakistan) che si sono sostituite rapidamente alle identit
à ideologiche proprie della contrapposizione tra democrazia e comunismo. La situazione internazionale insomma sembra diventare più instabile rispetto al tempo della guerra fredda, semplicemente per effetto di un aumento dei soggetti e delle variabili in gioco.
Appare evidente che in questo contesto cos
ì tumultuoso, a parte il caso particolare della guerra del Golfo o delle cosiddette «operazioni di pace» in Africa o nei Balcani, in cui si era affermato un nuovo modello di intervento degli Stati Uniti, fondato sul concordato con altri stati e sulla mediazione dell’Onu o della Nato, l’atteggiamento della Casa Bianca nei confronti di queste «nuove guerre» [Kaldor* 1999] si è spostato in direzione di una tendenza sempre più unilateralista. Tale atteggiamento di diffidenza, se non di ostilità, nei confronti di forme di collaborazione sopranazionale ha avuto modo di manifestarsi pubblicamente in occasione del rifiuto statunitense di sottoscrivere sia il Protocollo di Kyoto per la riduzione delle emissioni inquinanti sia l’atto di fondazione del Tribunale penale internazionale [Allegretti 2002]. Rispetto alla complessità crescente delle relazioni internazionali gli Stati Uniti sembrano non voler percorrere la strada del dialogo o della concertazione e le preferiscono quella del decisionismo e della difesa dei propri interessi.
Ad ipotizzare soluzioni alternative per opporsi in qualche maniera, tanto da indicare un preoccupante scenario che poi si sarebbe puntualmente verificato con gli attentati di Al Qaeda, allo strapotere economico e militare degli Stati Uniti era, prima fra tutte, l'apparato strategico della Cina popolare. Nell’ambiguit
à tipicamente orientale tra diagnosi e terapia che lo contraddistingue, il pensiero strategico militare cinese è venuto elaborando, tra il 1996 e il 1999, il concetto di «guerra asimmetrica»: una nuova arte della guerra che ricorre ad altri terreni di sfida non tradizionale [Liang e Xiangsui* 2001], come i virus informatici, le speculazioni borsistiche, la propaganda mediatica, i blocchi commerciali, il traffico di stupefacenti, il terrorismo biochimico o ecologico. Appare di un certo interesse il riferimento alla possibilità di usare come vere e proprie «armi» anche strumenti normalmente a disposizione della popolazione civile, e la distinzione tra vecchie e nuove guerre, non solo perchè l'accenno proviene da una nazione che impegna in proporzione quasi il doppio delle proprie risorse in spese militari (il 5.3% del Pil) rispetto ad altri importanti nazioni come gli Usa (3%), il Regno Unito (2,4%) e la Russia (5%), ma soprattutto perchè mette in luce quella che appare la contraddizione di fondo della politica estera statunitense: l'inefficacia dell'utilizzo delle più sofisticate tecnologie militari contro avversari non convenzionali, spesso mimetici e differenziati tra loro, contrari al rispetto delle convenzioni internazionali e non disponibili a trattare rese più o meno condizionate. In tal senso l’unilateralismo messo in atto dagli Stati Uniti non appare in grado di garantire la sicurezza dei cittadini americani ed europei, mentre espone a sofferenze e rischi migliaia di civili in altre parti del mondo. A ciò si aggiunga il divario nei confronti degli Stati Uniti del peso politico-militare dei paesi che compongono l'Unione Europea (al cui interno spicca il ruolo predominante del Regno Unito, da sempre partner privilegiato degli americani, che destinava ben
36 miliardi di dollari agli armamenti su un totale di circa 174 nel 2000).
Per trovare una soluzione diversa dallo scontro di civiltà e dall'unilateralismo americano, che non passi attraverso l'utopico appello ad una non bene precisata «società civile mondiale», non rimane che sperimentare quella che appare probabilmente l'unica alternativa percorribile: il diritto internazionale, in particolare l’esercizio applicativo dell’articolo 14 della carta delle Nazioni Unite, per l’uso circoscritto della forza militare, e la riforma democratica dell’Organizzazione delle Nazioni Unite in direzione dell’abolizione
del diritto di veto riconosciuto ai membri permanenti del Consiglio di sicurezza.
Si tratta di una via che peraltro, in passato, ha dato importanti risultati: in occasione dell'Atto finale della conferenza di Helsinki del 1975 che ha conferito sostegno giuridico al processo di sgretolamento dei regimi illiberali dell’est europeo; con l'appoggio internazionale alla causa anti-apartheid in Sudafrica che ha dato avvio, seppure con risultati altalenanti, al processo di democratizzazione di quei paesi; con la risoluzione della crisi balcanica, durante la quale con una multilateralità di interventi si è riusciti a mobilitare contro il premier serbo Milosevic oltre all'opinione pubblica mondiale anche quella interna, che fungendo da interlocutore privilegiato e da soggetto politico ha reso più praticabile la via della rinascita politica ed economica in quei paesi.
Appare chiaro che non in tutti i paesi questo genere di soluzione
è praticabile (si pensi ai casi di Iraq, Afghanistan e Somalia), ma in alcuni contesti la crescita delle società civili locali, aiutata da un maggiore peso del ruolo di partner dialogante esercitato dall'Unione Europea, dalla mobilitazione di organizzazioni internazionali e associazioni non governative, diventa un requisito indispensabile
per il loro sviluppo economico e politico. [Sen* 2001].

(Estratto da:
“Il mondo globale come problema storico” (Archetipo libri, Bologna)

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Ineguaglianza e povertà nella globalizzazione

La globalizzazione contemporanea aumenta o riduce l’ineguaglianza nel mondo?
Ormai da anni politici, economisti, sociologi cercano risposte a questa domanda. Ci sono gli scettici, i radicali, gli indecisi e, come spesso accade quando si tratta di questioni economico-finanziarie e politiche,
è difficile che si pervenga a conclusioni pacificamente condivise. Chi sostiene radicalmente che la piena integrazione del commercio mondiale, intesa come leva di sviluppo, sia destinata a far diminuire e, in prospettiva, a cancellare povertà ed emarginazione sociale, si appoggia a dati empirici rilevanti. A partire dalla rinascita dell’economia giapponese nel secondo dopoguerra, infatti, in Asia si è verificato un vero e proprio nuovo «miracolo economico» (diffusosi prima in Corea del sud, Taiwan, Hong Kong e Singapore, per poi contagiare Malaysia, Thailandia, Vietnam, fino alla crescita recente e accelerata del gigante cinese). In ciascuno di questi paesi un’espansione economica trainata dalle esportazioni (che incide sostanzialmente su reddito nazionale e variazione dei prezzi dei beni) ha prodotto risultati significativi sul fronte della lotta alla povertà. Anche se va subito messo in evidenza, a questo proposito, che l'aumento del reddito nazionale, a seguito dell'apertura di questi paesi al libero scambio, contribuisce alla diminuzione generale delle sacche di povertà, ma lascia sostanzialmente immutata la distribuzione del reddito. In ogni caso, tra il 1981 e il 2001, le persone che in questa zona del mondo vivono con meno di un dollaro al giorno calano, secondo cifre fornite dalla Banca Mondiale, da un miliardo e 200 milioni (54% sul totale degli abitanti) a 700 milioni (23%). Se si provano a consultare su www.socialanalysis.org i dati forniti dalla Food and Alimentation organization delle Nazioni Unite, la tendenza al ribasso della povertà è confermata, pur se in termini più contenuti: il numero delle persone denutrite sarebbe calato in Asia da 569 a 519 milioni,
e in particolare in Cina, passando da 193 a 142 milioni.

Tuttavia i dati empirici a supporto della tesi opposta non mancano affatto. Il Rapporto sullo sviluppo umano compilato dalle Nazioni Unite nel 1999 sostiene che le differenze tra i popoli e gli stati più ricchi e più poveri hanno continuato ad allargarsi. Nel 1960 il 20% della popolazione mondiale che abitava nei paesi più ricchi aveva un reddito 30 volte superiore a quello del 20% più povero.
La proporzione
è aumentata a 60 volte nel 1990 e a 74 nel 1997,
mettendo in luce una tendenza di fondo che dura da quasi due secoli.
Andando oltre le statistiche, se
è pur vero che è povero non solo chi ha una ridotta disponibilità di risorse, ma anche chi non è in grado di utilizzarle, va sottolineato che povertà e ineguaglianza (oltre a mancanza di libertà) rappresentano due aspetti della realtà che non possono essere confusi né assimilati. Esistono paesi come per l’appunto l’Italia con poca ineguaglianza e molta povertà relativa (nel 1998 il rapporto tra reddito della popolazione più ricca e quella più povera era di 4,2, mentre la percentuale di popolazione che viveva con meno della metà del reddito medio era addirittura il 12,8). Non necessariamente però tra i due aspetti sussistono rapporti di proporzione diretta: la povertà può benissimo ridursi mentre contemporaneamente cresce l’ineguaglianza. Proprio la Cina incarna in modo emblematico questa contraddizione. La diminuzione della povertà (da 600 a 200 milioni di persone) si accompagna infatti a una crescita di aree di benessere da cui ha inizio una tendenza, ormai consolidata da decenni, all’aumento dell’ineguaglianza del tutto paradossale per un paese comunista: tra 1980 e 1998 la differenza tra redditi familiari urbani e rurali (da 4,6 a 7,9) si allarga progressivamente fino
a raggiungere livelli non distanti da quelli degli Stati Uniti (8,9).
Al tempo stesso, per
ò, se si esclude la Cina, i poveri della Terra aumentano negli ultimi vent’anni da 845 a 888 milioni, con una crescita significativa nei paesi ex comunisti (da 1 a 18 milioni), in America latina (da 36 a 50) e soprattutto nell’Africa subsahariana (da 164 a 314). Almeno per il momento, dunque, la «miracolosa» ricetta asiatica non sembra convincere del tutto
e non
è direttamente esportabile in altre parti del mondo.

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(Archivio Giunti)

Si tratta, in primo luogo, di allargare la visione sulla questione più generale della povertà nel mondo almeno alla storia degli ultimi secoli, confrontando, per esempio, l'economia del Settecento con i mercati di oggi. Costretti ad analisi approfondite nel breve periodo, invece, economisti e sociologi finiscono per avere una visione dello sviluppo dei paesi poveri troppo schiacciata sul periodo coloniale e sullo sforzo di modernizzazione successivo. Il problema è che spesso questo approccio si trova di fronte a pregiudizi che risalgono alla storia precedente e finisce per assimilare casi specifici e limitati spazialmente e temporalmente ad una sorta di luogo comune della povertà e dell'arretratezza: si fa così riferimento a presunte identità etniche in conflitto, magari abilmente sfruttate dai regimi coloniali, come nel caso di Hutu e Tutsi nel Congo Belga; a logiche tribali di fazione e clientelismo che aumentano a dismisura i livelli della corruzione della burocrazia pubblica; a inerzie e resistenze delle comunità locali nei confronti dei processi pianificati di industrializzazione e commercializzazione dell’agricoltura; ad appartenenze religiose capaci di condizionare e stravolgere i meccanismi della rappresentanza elettiva; ad una instabilità cronica dei governi e delle istituzioni del luogo. In Asia, Africa, America latina la storia passata e recente è piena di episodi e vicende interpretate secondo questi luoghi comuni. Si rischia, così facendo, di riproporre per i paesi del Terzo mondo, la stessa visione che Hegel aveva dell’Africa come spirito non sviluppato, senza storia, ancora avvolto nelle condizioni naturali.
Eppure la storia recente delle ricette che i paesi ricchi hanno via via elaborato nel corso del XX secolo per risolvere i problemi dei paesi poveri,
è anche la storia delle sconfitte di quegli stessi luoghi comuni di cui erano plasmati quasi tutti i progetti di modernizzazione elaborati dall’Occidente. La razionalità dell’homo oeconomicus o politicus occidentale si trova costretta a scendere a patti con logiche, identità e credenze diverse, legate a contesti culturali «altri» e «diversi», dove quei modelli
di comportamento elaborati in Europa o sono assenti o sono presenti in forme minori.

La questione dell’ineguaglianza e del sottosviluppo non è, dunque, solamente una questione che si può interpretare con il solo strumento della storia economica, magari mettendo a confronto lunghi elenchi di dati e statistiche, ma si intreccia con la storia delle scienze sociali. Nello stesso tempo, ineguaglianza e sottosviluppo sono, per definizione, concetti relativi e soggettivi, fondati sul confronto dei giudizi e pregiudizi individuali e collettivi, che insieme formano il modo di guardare alla propria esperienza e a quella degli altri. Di fronte alla scoperta dell’ineguaglianza, la «piccola» storia delle scienze statistiche si intreccia con la «grande» storia
della coscienza europea ed occidentale posta a confronto con gli
«altri».
Quando, come e perch
é il problema dell’ineguaglianza tra paesi poveri e paesi ricchi si pone all’attenzione dei primi e dei secondi? Quale ruolo gioca il colonialismo nell'odierna realtà dei paesi in via di sviluppo? In che misura comportamenti e strategie di sopravvivenza dei poveri di tutto il mondo affondano le proprie radici in tradizioni e consuetudini ancora più antiche dell’arrivo degli occidentali? Quali sono state, nel corso del tempo, le diagnosi e le terapie contro arretratezza socioeconomica?
E come
è cambiato l’atteggiamento dei paesi poveri nei confronti dell’Occidente?
Si tratta, con tutta evidenza, di domande complesse, alle quali non è facile dare risposte del tutto coerenti.

(Tratto da:
“Globalizzazione” (Giunti, Firenze)

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La vita quotidiana alla fine degli anni Venti

Moda e libertà

Alla metà degli anni Venti la donna si muove alla conquista di una nuova immagine di sé e di una maggiore libertà di movimento. Non è raro trovarla in atteggiamenti che in passato le erano vietati perché considerati sconvenienti: può truccarsi e fumare in pubblico, come il caso di queste quattro ragazze in costume da bagno sulla spiaggia di Aldeburgh, a Suffolk, nel 1927. Può trascorrere molto più tempo fuori di casa. La diffusione di nuovi ambiti di socializzazione, come i cafè-concert, le sale da ballo, i teatri, i clubs, i cinema, gli stadi, modifica in maniera radicale le abitudini di aggregazione, permettono la creazione di ulteriori spazi vitali, fuori dal contesto familiare. In questi scenari la donna inizia a muoversi gradualmente, nonostante in molti casi essa resti ancora esclusa e relegata a un ruolo marginale o di abbellimento. L’abbigliamento è improntato a dare un’immagine di grande dinamicità. Dopo il 1925, le gonne si accorciano al ginocchio: portate con disinvoltura, diventano il simbolo dell’aspirazione all’indipendenza. L’Europa, che da un lato guarda al benessere degli Stati Uniti, ha il suo centro in questa rivoluzione estetica in Francia. A Parigi Gabrielle Chanel, detta Coco, che già da anni proponeva l’uso dei maglioni maschili per le donne, lancia con grande scalpore la moda alla garçonne: abiti sciolti e lineari, gonne che iniziano ai fianchi, corte, ondeggianti a metà polpaccio, vita poco pronunciata, adatta a donne magre e giovani, La grande praticità di questo tipo di abbigliamento porta alla diffusione mondiale di questo modello, suggerisce l’idea di una vivace e scanzonata adolescenza, come dimostrano queste giovani donne che calcano un prato inglese quasi fosse il palco di una sfilata. Tipici i copricapi a cloche in feltro, sotto i quali la donna nasconde i capelli tagliati corti. Un autentico oggetto di culto è quello di velluto nero con striscia argentata obliqua in bella vista, ultimo capriccio del nascente cinema hollywodiano: lo Zeppelin Hat, indossato dall’attrice americana Anita Page nel film sulla storia del dirigibile Graf Zeppelin.

La nuova moda mare

Con la diffusione della moda dell’abbronzatura e delle vacanze al mare, i migliori stilisti si lanciano con fantasia nella produzione di tenute balneari originali che riscuotono un grande successo. I tre modelli distesi al sole insieme alle tre modelle portano pantaloncini da bagno firmati Jantzen. Il due pezzi nero, indossato dalla modella Simone De Maria, pu
ò essere considerato quasi un’anticipazione del bikini: calzoncini corti e attillati e un top dello stesso colore, con al centro il monogramma personalizzato del famoso Jean Patou, il sarto preferito dalla stella del cinema Louise Brooks. Patou, che ha aperto a Parigi un esclusivo atelier dedicato ai costumi da bagno, risulta un eccezionale creatore di collezioni da mare in cui ha un’importanza centrale il colore, proposto, ogni stagione, in tonalità sempre nuove (ricordiamo il Patou blue e il dark dalia, del 1929). Il costume intero di lana nera della modella con la cuffia chiara, disegnato da Helene Yvande, è invece da considerarsi un classico di questo periodo. Semplice e raffinato, il costume di tricot con strisce bianche di jersey ideato dall’irlandese Molyneux, che alle stravaganze francesi predilige uno stile più sobrio, molto apprezzato dalle donne della buona società, tanto da permettergli, dopo il 1925, l’apertura di più sedi della sua casa di moda parigina. I calzoncini e i top da uomo, i costumi interi con cintura e strisce nella parte inferiori proposti da Lucien Lelong confermano l’uso diffuso del jersey anche nella moda per il mare, nelle mises maschili come in quelle femminili, particolarmente adatto per le sue caratteristiche di praticità e di vestibilità. Sempre nel campo dei tessuti, Sonia Delaunay, moglie del pittore Robert, è la prima a presentare disegni geometrici derivanti dall’astrattismo pittorico. Il costume da bagno della modella a sinistra è confezionato in morbida seta blu, arricchita da ricami in rosso, bianco e verde, in modo da formare una serie continua di rombi colorati.

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(Archivio Alinari)

Il modello di donna


Il passaggio a prodotti innovativi dal punto di vista tecnologico finisce per modificare solo in parte lo stile di vita dei ceti medio-bassi, perch
é trasforma soprattutto aspetti della vita meno necessari. Il consumo tecnologico, fin dagli anni Venti, diventa un esercizio di libertà, che arricchisce e migliora la vita quotidiana; ma non mancano i suoi risvolti negativi, dal momento che non è bilanciato da un’educazione e da una solida cultura. Anche le donne usufruiscono, in prima persona, dei nuovi beni di consumo, come articoli da decorazione, prodotti di bellezza, accessori domestici, ma rimangono indietro sul versante dei diritti essenziali. Nel 1926 una donna può comprare della frutta dal distributore a monete alla Stazione di Paddington a Londra; una ragazza può accendere il primo tostapane elettrico e prepararsi un toast). Una giovane e elegante signora fa una dimostrazione delle capacità della cucina a gas “New world”. Le modifiche introdotte nei consumi individuali, il fascino esercitato da altri stili di vita, come quello diffuso dal cinema americano, ampliano le vedute delle donne. Esse vivono un momento decisivo nel loro percorso di emancipazione. Specialmente nei paesi di tradizione protestante, di maggiore sviluppo capitalista e con sistema parlamentare, come la Finlandia, la Norvegia, i Paesi Bassi, l’Inghilterra, gli Usa, alle precedenti battaglie per il diritto di voto, si iniziano ad affiancare quelle per il divorzio, contro la legalizzazione della prostituzione, per la parità economica nel matrimonio, per l’ingresso nel mondo del lavoro. Alla metà degli anni Venti, in Italia, il fascismo scoraggia l’accesso femminile al mondo del lavoro, in particolare all’istruzione pubblica. Di pari passo vengono create delle scuole per le donne, in cui vengono istruite in tutto ciò che il regime ritiene “femminile”, ponendo le basi di una protezione costante. Nonostante ciò in Italia si riscontra una elevata percentuale (circa il 40%) di donne lavoratrici sposate, più alta di qualsiasi altro paese europeo, ad eccezione della Svezia socialdemocratica, dove però beneficiano di ampie tutele e servizi.

Grandi magazzini e tessuti sintetici


L’avvento dei materiali chimici e dei tessuti sintetici costituisce un caso pressoch
é unico di intenso sviluppo di un settore produttivo nuovo, ad elevata intensità di capitale e di ricerca tecnico-scientifica. Le innovazioni di prodotto e i continui miglioramenti qualitativi ne agevolano la veloce diffusione. E’ significativo che questa produzione non diminuisca neppure nelle fasi più buie della crisi mondiale, facendo segnare anzi una stabile affermazione. Intorno alla seconda metà degli Venti, calzifici, cotonifici e setifici assorbono poco meno dei due terzi della produzione mondiale di filati artificiali.
I nuovi filati artificiali iniziano ad affiancare e sostituire il cotone per certi impieghi, particolarmente nei tessuti estivi. Anche il mercato delle calzature, accanto alle classiche in cuoio e pelle, destinate ad un pubblico elitario e raffinato, come quelle esposte in una elegante vetrina della Dulcis ed osservate da questa donna, viene invaso, soprattutto negli Usa, da materiali artificiali, sintetici e chimici, come la gomma. Nel 1930 si sviluppa un vero boom delle scarpe sportive di gomma con lacci, prodotte dalla Dunlop. Sempre alla fine degli anni Venti si verifica, anche in Italia, l’influenza dei grandi magazzini nel vasto settore dell’abbigliamento. Si impone la standardizzazione dei prodotti, della qualit
à e della confezione, si moltiplicano le catene di negozi. La formula del prezzo unico nella vendita al dettaglio, sviluppatasi diversi anni prima negli Usa da grandi magazzini tipo Prisunix, Monoprix e Woolsworths, è principalmente rivolta verso quei clienti per i quali il prezzo rappresenta l’elemento chiave dell’acquisto. In Italia la Rinascente, così battezzata dal poeta Gabriele D’Annunzio, fonda nel 1928 la Società Upim (Unico Prezzo Italiano Milano), che apre il suo primo magazzino a Verona. In Via del Tritone a Roma, durante i lavori di pavimentazione, spicca in primo piano un grande cartellone pubblicitario dei neonati magazzini Upim.

L’automobile accelera la vita


Il pi
ù aggressivo simbolo del progresso degli anni Venti è indubbiamente la produzione delle automobili su vasta scala. Nel 1929 in Usa vi sono già 200 automobili ogni 1000 abitanti. L’automobile, per chi se la può permettere, accelera la velocità della vita, offre nuove forme di passatempo, dà libertà alla gioventù, contribuisce allo sviluppo di una moderna industria, procura lavoro a milioni di persone. Dopo aver puntato sull’aumento della velocità di rotazione, salendo al vertice di ben cinque mila giri al minuto, e sul frazionamento della cilindrata a sei e otto cilindri, per ottenere motori più equilibrati, dal 1925 le aziende costruttrici di automobili ricorrono all’arma segreta della sovralimentazione. Innestano un compressore che, comprimendo la miscela di aria e benzina, introduce ad ogni mandata una maggiore quantità di combustibile nel cilindro di quella che entrerebbe per normale aspirazione. In tal modo la potenza che si può ricavare dal motore viene considerevolmente aumentata, dando inizio all’era delle veloci auto da corsa. Mentre sotto la legge ferrea dell’industrializzazione e della concorrenza internazionale si fa più dura l’esistenza delle piccole aziende, si affaccia nel 1926 una nuova macchina da corsa, la Maserati. A Modena si comincia a parlare di Enzo Ferrari, un automobilista di razza, che dopo aver fatto parte della squadra dell’Alfa Romeo, ha lasciato il seggiolino di pilota per dedicarsi alla progettazione di macchine da corsa, con la sua Scuderia Ferrari. Di grande interesse, per le tendenze che si delineano, appare il XVIII Salone italiano del 1925. L’Itala espone il suo capolavoro: il modello 61, una creazione perfetta di raffinatezza tecnica ed estetica. L’Alfa Romeo presenta una sei cilindri 1500, che perfeziona sempre più fino a quando, nel 1930, consacra alla sua guida il pilota Nuvolari, che vince la Mille Miglia, viaggiando a una media di oltre 100 km/h. La Lancia tiene il campo con la sua Lambda. Nel 1930 la nuova automobile, spinta dal carburante miscelato, possiede due larghi cilindri sulla parte anteriore.

La nuova illusoria modernit
à

Negli met
à degli anni Venti si consolida la convinzione che la scienza e la tecnica siano in grado di garantire a tutti sicurezza economica e benessere. Il simbolo del progresso americano è rappresentato dalla produzione su vasta scala e dalla diffusione dell’automobile che, da mezzo d’élite, diventa un bene di prima necessità, basato su un sistema tecnologico orientato alla produzione di massa. Il taylorismo, il fordismo, il sistema manageriale di Sloan, con innovazioni che riguardano il marketing, si diffondono in tutta l’industria americana, con l’espansione della produzione dei beni di consumo. S’inventano soluzioni che rendono più semplice la vita, costretta a ritmi più veloci e stressanti. Nel 1928 alcuni passeggeri salgono per la prima volta su una scala mobile, progettata da Charles Holden, nella Metropolitana di Piccadilly a Londra, da poco aperta. Il 15 ottobre 1929 viene pubblicizzata una nuova linea di rasoi elettrici, che permettono di radersi in metà del tempo impiegato abitualmente e di velocizzare così i tempi d’inizio della giornata. Nel 1930 alcuni impiegati americani pranzano in un fast-food dotato di sifoni per bevande, accanto al luogo di lavoro. L’invenzione di prodotti di consumo su vasta scala provoca però squilibri tra il mondo capitalista, che si arricchisce, e la condizione dei lavoratori nelle aziende, che peggiora. Anche in Italia, insieme alla modernizzazione che provoca un salto di qualità nell’organizzazione del lavoro, si assiste ad una dequalificazione delle mansioni, con perdita dei contenuti professionali. Nonostante l’impegno di giovani esponenti d’avanguardia del ceto imprenditoriale, come i fratelli Olivetti, che nel 1926 fondano l’Ente Nazionale Italiano per l’Organizzazione Scientifica del Lavoro, allo scopo di incentivare la razionalizzazione industriale, l’aumento della produttività non significa sempre ammodernamento e avanzata divisione del lavoro, ma quasi esclusivamente intensificazione del lavoro, accelerazione del ritmo produttivo, a scapito delle condizioni dei lavoratori stessi.

Il crollo di Wall Street


Tra il 24 ottobre e il 29 ottobre 1929 il mercato azionario di New York conosce il pi
ù grande crollo della storia. Un’enorme folla di operatori e risparmiatori, esperti e semplici cittadini, ferma davanti al Treasury Building, assiste incredula al crollo della Borsa di Wall Street. In una sola giornata circa 13 milioni di azioni cambiano proprietario, provocando una perdita complessiva, per l’economia americana, di nove miliardi di dollari. È il cosiddetto “Giovedì nero”. A gettare il mondo intero in una devastante fase recessiva è soprattutto il comportamento caotico degli operatori che in precedenza avevano favorito una lunga serie di profitti. Sulla scia di New York avviene il crollo delle borse europee, nonostante le limitazioni tentate dalle banche centrali, con il conseguente calo della produzione, degli investimenti, dei redditi, dei depositi bancari, la caduta dei prezzi dei beni primari, l’aumento delle giacenze nei magazzini e dei debiti. Le tariffe protezioniste soffocano il commercio internazionale. Dagli Usa all’Europa, in particolare in Germania, Austria e Inghilterra, perfino ricchi proprietari come il newyorchese Walther Thorton che vende la sua appariscente automobile per appena 100 dollari, si trovano improvvisamente di fronte ad un futuro incerto. Nel 1930 sono ancora in pochi a intravedere la gravità e la profondità della crisi, ma i 30 milioni di disoccupati degli anni successivi sono una realtà con cui le classi dirigenti occidentali non potranno fare a meno di fare i conti. Gli effetti della “depressione” del 1929 mostrano drammaticamente la vulnerabilità di un’economia di mercato senza controlli, come ammise subito l’economista inglese John Maynard Keynes. L’America mette da parte i miti ultraliberisti e inaugura l’esempio più cospicuo di dirigismo economico. Il nazionalismo economico degli anni della grande crisi apre dunque la strada in Europa, nel decennio successivo, alle esperienze totalitarie e autoritarie.

Lavorare prima e dopo la Grande Depressione


Nel febbraio 1930 le operaie dell’industria conserviera Del Monte dispongono pesche nelle cassette con la stessa cura con cui le lavoratrici di una fabbrica di Birmingham sistemano e allineano i barili di olio nel deposito. Sono due tipici scenari del processo di produzione su vastissima scala, che sta alla base dell’espansione economica degli Usa nella seconda met
à degli anni Venti. Gli Usa, in questi anni, vedono crescere il loro prodotto interno lordo del 2% e diminuire l’inflazione (sotto l’1%) e la disoccupazione (3,5%). Aumentano lavoro e salari, beni e servizi, il reddito medio si incrementa del 30%. In particolare, gli immigrati forniscono all’industria la manodopera a buon mercato necessaria per il suo sviluppo, infoltendo però sensibilmente la quota del sottoproletariato urbano. Un “urbanesimo del lavoro” di eccezionale portata continua a svilupparsi a ritmo frenetico. Tutta la costa atlantica, da Boston a Washington, diventa una sola immensa città del lavoro, la cosiddetta “megalopoli”. Educazione, mobilità nel lavoro e consumi sono i pilastri della cosiddetta americanizzazione. La classe media si espande a macchia d’olio, tanto da includere sia professionisti che operai. La cosiddetta opinione pubblica, urbana e bianca, cuore del processo di massificazione dei consumi, si identifica sempre più con essa.
Pur con difficoltà e contraddizioni, anche l’Europa sembra giungere alla fine degli anni Venti in una situazione di maggiore distensione e prosperità rispetto all’inizio del decennio. Il principale problema economico è l’enorme debito creato dalla guerra. I prezzi dei prodotti diminuiscono, per l’aumento della produzione e per le politiche protezioniste, mediamente del 30 % dal 1924 al 1929. La Gran Bretagna è il paese che paga maggiormente il prezzo della competizione internazionale, diminuendo la quota del commercio, della produzione e del consumo nei settori tessile, carbonifero e dell’acciaio. In Francia, invece, la produzione di automobili e di elettricità aumenta sensibilmente dal 1925 al 1929, a dimostrazione di una generale stabilità economica differenziata e ancora precaria.
La vittima più grande della crisi finanziaria del 1929 è certamente il mondo dei lavoratori. Accanto alla disoccupazione, che colpisce indiscriminatamente operai, impiegati, soprattutto giovani, e che si prolunga per anni, cresce la miseria diffusa in città e nelle campagne, diminuisce sostanzialmente dappertutto il livello della vita. Peggiora la salute, aumentano la mortalità e la sottonutrizione infantile. I quattro bambini ossuti che divorano le pannocchie di granturco accovacciati ai piedi di una strada polverosa in periferia non sono che una delle tante scene di ordinaria miseria in cui cade la contraddizione della ricca civiltà occidentale. Negli Usa crescono coloro che perdono la proprietà e l’impiego. Le donne sono le prime ad essere licenziate e a cercare di sbarcare il lunario con improvvisati mezzi, come questa donna e le sue mele. La Germania è, insieme agli Usa, il paese che soffre la maggiore disoccupazione a seguito della crisi, fino a raggiungere il 22% della popolazione attiva nel 1930. Ad essere colpiti in modo massiccio sono gli agricoltori, che riducono di un terzo il reddito medio. Negli Usa i sindacati riuniti nella AFL, American Federation of Labor, erano unioni locali di operai specializzati, la loro era una politica di collaborazione di classe volta ad ottenere dai datori di lavoro paghe decenti. Solo nel 1929, parallelamente al crollo della Borsa, si forma un nuovo gruppo di associazioni sindacali più combattive, la TUUL, Trade Union Unity League, distaccatasi dall’AFL, fondata soprattutto attraverso il volontariato degli iscritti. In Inghilterra, già dopo lo sciopero nazionale del 1926, come negli Usa, in particolare dopo il 1929, nascono uffici di assistenza contro la disoccupazione generalizzata. L’occidentalismo che aveva mostrato la sua incapacità a mantenere politicamente la pace e l’equilibrio in Europa nel primo ventennio del secolo, al termine degli anni Venti si rivela impotente anche nel controllo della crisi economica e finanzaria.

La società del lavoro: il vecchio e il nuovo

Il paradosso americano ed europeo della fine degli anni Venti, che dopo la Grande Crisi si accentua ancora, è che mentre gli aspetti meno essenziali, gli usi e i costumi sono largamente mutati, la struttura della società non è cambiata gran che. Anche se durante il boom economico si dice che le vecchie distinzioni di classe sono ormai scomparse col sorgere di una grande classe media, e che i problemi quotidiani di lavoro e ingiustizia sociale sono dissolti con la diffusione del cinema, degli apparecchi radio, delle automobili, della nuova scienza e tecnica, la povertà non è scomparsa, anzi. Al di là degli ottimismi e delle mitologie psicologiche, i mutamenti veri nelle strutture sociali e lavorative sono del tutto trascurabili. Il mondo del lavoro è composto, in maggioranza, da individui senza alcuna qualifica e in certi settori, come l’edilizia, da immigrati. Aumentano gli impiegati, i cosiddetti colletti bianchi, ma a prezzo di una crescente dequalificazione di massa. I datori di lavoro sono sempre gli stessi, i lavoratori rimangono lavoratori, gli stipendi sono mutati appena, mentre cresce il numero di coloro che vivono non in attesa di una busta paga, ma di lavori saltuari. Le differenze di classe in Usa, ma anche in Europa, in questi anni, non solo rimangono forti, ma si cristallizzano in differenze di casta. I ricchi sono pochi, e quei pochi lo sono così tanto che la loro stessa ricchezza li rende lontani dalla maggioranza, che soffre le conseguenze di una crisi messa in moto dall’essenza stessa del capitalismo. Nel settembre 1930 non è improbabile trovare un assistente di un qualsiasi ufficio di collocamento in Snow Hill a Londra, intento a prestare aiuto a un colletto bianco, o un disoccupato a Los Angeles, in California, che riceve una piatto di zuppa e qualche fetta di pane in un distribuzione all’aperto durante la Grande Depressione. Il nuovo e diverso mondo della fine degli anni Venti non è poi così cambiato.

Al Capone e l’era del proibizionismo


Il proibizionismo in Usa rappresenta uno degli esempi pi
ù significativi della contraddizione tra aspettative di libertà e realtà. Il Volstead Act, approvato nel 1920, considera intossicanti le bevande con oltre lo 0.5% di alcool e, nonostante lo sforzo dello Stato che istruisce procedimenti penali, sequestra milioni di bottiglie di birra e whisky, distrugge gli apparecchi di distillazione illegali, alla fine, complice l’inefficenza e la corruzione generalizzata della polizia e dei giudici, riesce essere costantemente aggirato.
Al Capone, figlio di emigranti di origine partenopea, dal 1925 trasforma Chicago nel più noto centro di contrabbando d’alcool e di armi d’America. Giunto ai vertici della criminalità organizzata, tra il 1927 e il 1928, sposta il suo quartier generale all’Hotel Lexington, che diventa sede e motore di una organizzazione illegale che gli frutta oltre 100 milioni di dollari l’anno, con le attività legate alla “protezione”. Guadagni che iniziano ad attirare l’interesse degli uffici dell’FBI che si occupano di frode fiscale. Il 14 febbraio 1929 Capone provoca la nota strage di San Valentino, sbarazzandosi in un sol colpo della banda rivale degli irlandesi, crivellati da centinaia di colpi davanti al muro di un piccolo garage di periferia. Tra le vittime della strage, oltre a Moran e O’Banion, anche uno dei fratelli Gusenberg, la cui bara, di fronte a una folla di “fedelissimi”, viene trasportata dalla cappella al cimitero cittadino. Lo stato americano, fiancheggiato dall’appoggio delle classi legate a valori tradizionali, protestanti-anglosassoni e puritani, finisce per peggiorare i rapporti tra minoranze e maggioranza bianca nella società civile. Il gangster Al Capone, sfruttando una legge sostanzialmente diretta contro gli immigrati e i neri, accusati di favorire la degradazione fisica e morale attraverso l’abuso di alcool, diviene il paladino del libero mercato americano. Il 18 novembre 1930 poveri lavoratori americani usufruiscono di una scodella di zuppa nella cucina di un locale di Al Capone alla 935 State Street.

Tratto da: “
La grande storia del Novecento. L’immagine di un secolo” (A. Mondadori, Milano)

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