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La globalizzazione e la guerra

La globalizzazione e la guerra

Una visione di lungo periodo e possibilmente dialettica della globalizzazione trova riscontri anche nell’ambito più propriamente geo-politico. A differenza della lettura «filosofica» della globalizzazione che punta sulla cosiddetta «morte della distanza» e «fine dello stato-nazione», sostituito da un impero globale su scala planetaria, questo genere di analisi mette in evidenza l'aumento progressivo dell’instabilità internazionale, acuita dalla crisi internazionale apertasi col terrorismo internazionale, in particolare con gli attacchi dell’11 settembre 2001, ma fondata, quotidianamente, su processi ben precedenti e strettamente legati alla fine dei regimi comunisti, al risorgere delle ideologie nazionaliste a sfondo religioso, che animano buona parte di quei paesi.
E' soffiando sul fuoco della polemica che il politologo Huntington fonda la sua tesi sullo
«scontro di civiltà» [Huntington 1997] e prospetta un approccio «realista» alla storia delle relazioni internazionali in cui si fronteggiano non più gli stati e i loro interessi nazionali (con le loro alleanze, i loro rapporti di forza) ma indifferenziati blocchi culturali-religiosi, contraddistinti da identità assai più antiche di quelle della guerra fredda e quindi ancora più immobili, monolitiche, non negoziabili.
D’altra parte, gli Stati Uniti, dopo la guerra fredda, manifestano una posizione sempre pi
ù unilateralista, pronta a sfidare il pericolo di un nuovo isolamento, dall’alto della propria indiscussa superiorità economica e militare. Dopo l’11 settembre, infatti, il bilancio della difesa statunitense è stato incrementato fino a raggiungere, nel 2002, ben 343 miliardi. Dal canto suo, la Russia, la seconda nazione in termini di spese militari, rappresenta meno di un quinto della potenza bellica statunitense
(64 miliardi di dollari), con proporzioni a dir poco impensabili soltanto qualche decennio fa.
Se per
ò mettiamo in atto una comparazione in chiave storica, ad una più attenta analisi è possibile valutare meglio le nuove gerarchie del potere mondiale e scoprire importanti differenze rispetto al passato. Nel 1900, le spese militari britanniche raggiungevano, proporzionalmente, dimensioni non molto diverse da quelle statunitensi attuali, che sembrerebbero ribadire la validità della tesi della continuità di un’economia-mondo capitalistica gravitante attorno a un centro sia economico-finanziario sia militare. Ma esaminate lungo un arco cronologico più ampio, per esempio partendo dal 1890, le stesse spese militari britanniche appaiono assai meno imponenti di quelle degli Stati Uniti attuali (corrispondevano a circa la metà di quelle russe ed erano più o meno simili a quelle di Francia e Germania), mentre alla vigilia della Grande Guerra, arrivano ad essere paragonabili a quelle francesi, tedesche e russe. Le cifre sulle spese militari britanniche del 1900 non sono dunque così qualificanti e sono destinate, nel giro di qualche decennio ad essere rimesse in discussione da un maggiore equilibrio militare a livello europeo. Inoltre, a differenza di quella statunitense, la supremazia britannica di un secolo fa non si fonda sul controllo esclusivo di tecnologie particolari (si pensi ai cacciabombardieri invisibili statunitensi o alle cosiddette «bombe intelligenti) o di programmi di ricerca scientifica, bensì sull’attuazione sistematica di programmi di riarmo estensivo (flotta navale, corazzate). Il distacco sul piano strategico militare operato dagli Stati Uniti nei confronti di tutte le altre potenze europee ha il suo inizio subito dopo la sconfitta americana in Vietnam ed ha il suo culmine negli anni Ottanta, con la cosiddetta «Strategic Defense Iniziative», meglio nota come «guerre stellari» di Reagan. Va detto che accanto alla supremazia militare, a partire dalla seconda metà degli anni Novanta, una accentuata instabilità accompagna l’indiscussa leadership del dollaro nelle relazioni commerciali internazionali.
Un'altra importante differenza sta nei diversi equilibri internazionali: se
è vero che al posto degli Stati Uniti odierni c'era la Gran Bretagna che alla fine del secolo scorso era capace di esprimere un’egemonia intercontinentale fondata su un impero coloniale senza rivali, non va dimenticato che dai 40 stati del 1900 si è passati ai circa 180 stati attuali.

globalizzazione
(Archivio Alinari)

In definitiva dunque la globalizzazione economica si accompagna a una evidente frammentazione del sistema delle relazioni internazionali, con la moltiplicazione delle aree integrate commerciali (come Nafta, Mercosur e Unione Europea), delle medie potenze regionali in grado di mirare a pericolose politiche egemoniche ed espansive (come Iran o Pakistan) che si sono sostituite rapidamente alle identit
à ideologiche proprie della contrapposizione tra democrazia e comunismo. La situazione internazionale insomma sembra diventare più instabile rispetto al tempo della guerra fredda, semplicemente per effetto di un aumento dei soggetti e delle variabili in gioco.
Appare evidente che in questo contesto cos
ì tumultuoso, a parte il caso particolare della guerra del Golfo o delle cosiddette «operazioni di pace» in Africa o nei Balcani, in cui si era affermato un nuovo modello di intervento degli Stati Uniti, fondato sul concordato con altri stati e sulla mediazione dell’Onu o della Nato, l’atteggiamento della Casa Bianca nei confronti di queste «nuove guerre» [Kaldor* 1999] si è spostato in direzione di una tendenza sempre più unilateralista. Tale atteggiamento di diffidenza, se non di ostilità, nei confronti di forme di collaborazione sopranazionale ha avuto modo di manifestarsi pubblicamente in occasione del rifiuto statunitense di sottoscrivere sia il Protocollo di Kyoto per la riduzione delle emissioni inquinanti sia l’atto di fondazione del Tribunale penale internazionale [Allegretti 2002]. Rispetto alla complessità crescente delle relazioni internazionali gli Stati Uniti sembrano non voler percorrere la strada del dialogo o della concertazione e le preferiscono quella del decisionismo e della difesa dei propri interessi.
Ad ipotizzare soluzioni alternative per opporsi in qualche maniera, tanto da indicare un preoccupante scenario che poi si sarebbe puntualmente verificato con gli attentati di Al Qaeda, allo strapotere economico e militare degli Stati Uniti era, prima fra tutte, l'apparato strategico della Cina popolare. Nell’ambiguit
à tipicamente orientale tra diagnosi e terapia che lo contraddistingue, il pensiero strategico militare cinese è venuto elaborando, tra il 1996 e il 1999, il concetto di «guerra asimmetrica»: una nuova arte della guerra che ricorre ad altri terreni di sfida non tradizionale [Liang e Xiangsui* 2001], come i virus informatici, le speculazioni borsistiche, la propaganda mediatica, i blocchi commerciali, il traffico di stupefacenti, il terrorismo biochimico o ecologico. Appare di un certo interesse il riferimento alla possibilità di usare come vere e proprie «armi» anche strumenti normalmente a disposizione della popolazione civile, e la distinzione tra vecchie e nuove guerre, non solo perchè l'accenno proviene da una nazione che impegna in proporzione quasi il doppio delle proprie risorse in spese militari (il 5.3% del Pil) rispetto ad altri importanti nazioni come gli Usa (3%), il Regno Unito (2,4%) e la Russia (5%), ma soprattutto perchè mette in luce quella che appare la contraddizione di fondo della politica estera statunitense: l'inefficacia dell'utilizzo delle più sofisticate tecnologie militari contro avversari non convenzionali, spesso mimetici e differenziati tra loro, contrari al rispetto delle convenzioni internazionali e non disponibili a trattare rese più o meno condizionate. In tal senso l’unilateralismo messo in atto dagli Stati Uniti non appare in grado di garantire la sicurezza dei cittadini americani ed europei, mentre espone a sofferenze e rischi migliaia di civili in altre parti del mondo. A ciò si aggiunga il divario nei confronti degli Stati Uniti del peso politico-militare dei paesi che compongono l'Unione Europea (al cui interno spicca il ruolo predominante del Regno Unito, da sempre partner privilegiato degli americani, che destinava ben
36 miliardi di dollari agli armamenti su un totale di circa 174 nel 2000).
Per trovare una soluzione diversa dallo scontro di civiltà e dall'unilateralismo americano, che non passi attraverso l'utopico appello ad una non bene precisata «società civile mondiale», non rimane che sperimentare quella che appare probabilmente l'unica alternativa percorribile: il diritto internazionale, in particolare l’esercizio applicativo dell’articolo 14 della carta delle Nazioni Unite, per l’uso circoscritto della forza militare, e la riforma democratica dell’Organizzazione delle Nazioni Unite in direzione dell’abolizione
del diritto di veto riconosciuto ai membri permanenti del Consiglio di sicurezza.
Si tratta di una via che peraltro, in passato, ha dato importanti risultati: in occasione dell'Atto finale della conferenza di Helsinki del 1975 che ha conferito sostegno giuridico al processo di sgretolamento dei regimi illiberali dell’est europeo; con l'appoggio internazionale alla causa anti-apartheid in Sudafrica che ha dato avvio, seppure con risultati altalenanti, al processo di democratizzazione di quei paesi; con la risoluzione della crisi balcanica, durante la quale con una multilateralità di interventi si è riusciti a mobilitare contro il premier serbo Milosevic oltre all'opinione pubblica mondiale anche quella interna, che fungendo da interlocutore privilegiato e da soggetto politico ha reso più praticabile la via della rinascita politica ed economica in quei paesi.
Appare chiaro che non in tutti i paesi questo genere di soluzione
è praticabile (si pensi ai casi di Iraq, Afghanistan e Somalia), ma in alcuni contesti la crescita delle società civili locali, aiutata da un maggiore peso del ruolo di partner dialogante esercitato dall'Unione Europea, dalla mobilitazione di organizzazioni internazionali e associazioni non governative, diventa un requisito indispensabile
per il loro sviluppo economico e politico. [Sen* 2001].

(Estratto da:
“Il mondo globale come problema storico” (Archetipo libri, Bologna)

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