credenti

Unità nella diversità

donmilani
(Archivio Alinari)
“E’ chiaro perché sia così difficile capire gli scritti di don Milani per chi (…) sia stato istruito nella contrapposizione tra cattolici e comunisti, tra progressisti e reazionari, fra chiesa gerarchica e chiesa del dissenso, fra cultura borghese e cultura marxista (…) Per essi, una contrapposizione così semplice e primitiva come quella presente in Milani, non una contrapposizione, ma un nesso in un sistema sicuramente e trionfalmente gerarchico, non è più comprensibile perché non sembra corrispondere ad alcun sistema di appartenenze, perchè non ha riferimenti attuali, non interviene nell’ordine della conflittualità politica, non sembra considerare e accogliere i termini, appunto, della storia individuale e collettiva”.


Sono parole di Michele Ranchetti, che chiariscono il motivo per cui Mario Gozzini, citando don Milani, in più di un’occasione, non si conformasse semplicemente a quella che era, ormai, specialmente dopo il Sessantotto, una consuetudine diffusa all’interno del mondo cattolico e di quello laico, anche comunista; ma attingesse direttamente dall’intimo significato dei suoi scritti, attraversandoli con la propria azione intellettuale, e lottando proprio contro quelle contrapposizioni cui accennava Ranchetti. L’incontro tra i due, come si è visto, fu breve e non ebbe seguito, ma diede certamente i suoi frutti successivamente. L’ “Unità nella diversità”- come l’aveva chiamata qualcuno, matura i risultati migliori nel lungo periodo.
Prendendo in esame la vicenda del rapporto tra Gozzini e don Lorenzo Milani, figure così diverse per linguaggio, formazione culturale, interlocutori, pur operanti, almeno fino a un certo momento, nello stesso terreno d’azione del mondo cattolico, non si può prescindere da un chiarimento riguardante la cosiddetta “unità nella diversità”. Anzi, più corretto sarebbe parlare di due facce diverse ma complementari della volontà riformatrice e rinnovatrice di un preciso, seppur esiguo, cattolicesimo italiano. Una faccia più culturale, equilibrata e poi politica, quella di Gozzini; più colloquiale e direttamente sociale, senza mediazioni di sorta, culturali, storiche, civili, alla verità religiosa,
quella di don Milani.

Può essere utile, a tal fine, tornare indietro di qualche anno, e accennare ad uno scambio d’idee tra Elio Vittorini e Carlo Bo. Alla fine del 1945, Vittorini, dalle colonne de “Il Politecnico”, lanciava un appello per una “nuova cultura” che contribuisse alla ricostruzione politica e sociale del paese. Fra i capisaldi di questa “nuova cultura”, Vittorini inseriva di diritto il nome di Cristo. Bo, dalle pagine di “Costume”, lo invitava a “credere nella vita che è Cristo, fuori da ogni modo di cultura e di società”. In risposta, Vittorini lo chiamava a “far valere il più possibile, nel comune lavoro degli uomini cristiani e non cristiani, (…) la sua effettiva importanza storica, la sua importanza, anche potenzialmente sociale, la sua importanza, in una parola, culturale”. Bo aveva dunque risposto alla sollecitazione di Vittorini con una richiesta di conversione, dimostrando di non aver colto il senso del suo appello. Ma qualcuno avrebbe presto raccolto la “sfida” lanciata dal non cattolico Vittorini, e avrebbe provato a dare una risposta non solo teorica, ma sulla propria pelle, dentro la propria stessa vita quotidiana. “Cristo è o non è, anche, cultura?” E’ una domanda che Gozzini e don Milani, per altri versi, affronteranno durante tutta la loro opera. Don Milani guarderà sempre con sospetto alla cultura, agli intellettuali, e proporrà una cultura “altra”, quella della “sua” scuola. Gozzini, e su questo punto si consumerà, come vedremo, il mancato sviluppo del rapporto tra i due, è ben saldo dentro un tipo di azione culturale, forse più tradizionale nei metodi, ma non per questo meno rivoluzionaria nei contenuti. Entrambi credono sicuramente nell’importanza storica di Cristo e quindi nel suo valore culturale. Ma l’intuizione di Vittorini chiamava in causa un altro tema decisivo per i due nostri autori, quando faceva riferimento alla legittima possibilità di introdurre la democrazia nella chiesa:

Per gli uni (cattolici, n.d.a.) la chiesa è al di sopra della vita. Per gli altri (non cattolici, n.d.a.) è semplicemente fuori dalla vita. Ed entrambi hanno torto allo stesso modo; entrambi non vedono la grande importanza che essa ha nella vita.”

La grande importanza che la chiesa, una chiesa giusta, onesta, democratica, può avere nella vita, nella realtà, per tutti. Don Milani ha insistito spesso su questo punto. Ma è questo un argomento ricorrente nella storia del cattolicesimo italiano: chi lotta all’interno del mondo cattolico, affinchè si cerchi di introdurre nella chiesa un modo più democratico, magari provando ad iniziare un confronto aperto con il mondo dei non credenti, collaborando con loro, finisce per essere attaccato ed accusato o di essere un ex prete, se parte della chiesa, o di essere “passato ai barbari”, se laico. Don Milani sarà accusato, in vita, di essere un prete rosso, di essersi “venduto” ai comunisti (in particolar modo dalla stampa cattolica o di destra), di essere un “alienato”, da parte della stessa chiesa. La stessa accusa di essersi “venduto” toccherà Gozzini nel ’76, dopo il “dialogo alla prova” e l’impegno da “indipendente” accanto al Pci. Il Concilio Vaticano II c’era stato da un pezzo, ed aveva, in parte, dato alcune risposte alle domande di democrazia che si levavano verso la chiesa. Eppure, come si può ben capire, ancora discriminazione e pregiudizio rimanevano intatte costanti di certi reiterati giudizi.
Questa “resistenza” nella diversità è ripresa con la stessa appassionata volontà riformatrice, sia da don Milani, sia, successivamente, da Gozzini. E’ nota la “resistenza” di don Milani prima nella comunità limitrofa di San Donato, poi dall’eremo di Barbiana. Don Milani sfugge ogni irrigidimento in schemi, ogni etichetta. Non è stato un prete dissidente o un sovversivo, non è stato un “cattolico di sinistra”, non è stato l’anti-intellettuale. Per questo è così difficile parlare di lui, accostarlo ad altri personaggi o vicende, ma è da qui, soprattutto, che nasce il fascino entusiasta di parlarne. Obbediente a Dio, alla chiesa, al primato della coscienza; ma di un’obbedienza che si è manifestata agli atei come prova di rigorosa coerenza, come radice indiscutibile di testimonianza, che si è manifestata a molti preti e cattolici come la via per restare fedeli alla chiesa ma non ai privilegi borghesi, agli ordinamenti “fascisti”. La sua è una resistenza “obbediente” ma, come tale, paradossalmente, è rivoluzionaria.
Gozzini invece è ancora tutto da studiare. Anche se non sfugge, perfino ad uno primo sguardo sulla sua opera, il ruolo di coscienza critica interna, di ricettacolo di confronto, dialogo, pluralismo, prima dentro al mondo cattolico, poi dentro a quello comunista.
In effetti, don Milani e Gozzini si posero, tra i tanti temi affrontati, alcuni problemi analoghi: è possibile una forma di “democrazia” dentro la chiesa? Può la speranza di una salvezza ultraterrena, dare il tempo, segnare il ritmo, all’azione, tutta terrena, dell’uomo? E’ vero che la maggiore forza dello spirito cristiano, ben più della relativa e mutevole ideologia, è rappresentata dalla cosiddetta “riserva critica”, ovvero ciò che non permette di fermarsi mai su nessun assetto storico come qualcosa di immutabile e di assoluto? E se sì, su questa base, si può riuscire ad avviare un confronto critico o anche un dialogo tra due mondi, appunto, “diversi”, per cultura, religione, tradizioni, come quello cristiano e quello comunista?
Eppure il rapporto tra questi due uomini, la loro coerente “diversità”, il recupero di certe istanze e peculiarità nel lungo periodo, vanno studiati per cogliere il significato di quella battaglia comune, non solo per una chiesa più democratica ma per un mondo più giusto, portata avanti, anche in nome di quella stessa diversità. Diversità, non solo di idee (e, a volte, ideologie) ma, più in generale, di religioni, di culture, di popoli, e attraverso la quale, forse, si potrà finalmente risolvere la questione dell’incomunicabilità, della guerra, tra i diversi, e gettare le basi per nuove, più solidali e democratiche, città del mondo.

(Estratto da:
“Rivista di Storia del Cristianesimo”, n. 2)

Comments

Politica e società civile. I cattolici, la sinistra e il berlusconismo

Dopo le esortazioni degli intellettuali durante un recente convegno fiorentino sul berlusconismo (“Società e Stato nell’èra del berlusconismo”), sembra essersi finalmente svegliata quell’opinione pubblica virtuosa finora costretta quasi ad agire nell’ombra, senza alcuna visibilità mediatica. Viene alla luce quella sorta di “piazza pubblica” formata da cittadini critici e vigili sulle regole della democrazia, disposti a impegnarsi attivamente, nei rispettivi ambiti, per assumere comportamenti consapevoli e buone pratiche in una società sempre più globale. Firenze ritorna ad essere, per qualche momento, quel punto di incontro cruciale, culturale e politico, che fu ai tempi del sindaco La Pira. Pochi giorni dopo il convegno si è svolto, infatti, sempre a Firenze, il congresso fondativo di Sel, dove il discorso evocativo di Vendola è emerso come un tentativo di rispondere e reagire alla cultura imperante del berlusconismo.
Dalle riflessioni degli studiosi appare chiaro il significato del berlusconismo. Berlusconi rappresenta l’effetto e non la causa dell’attuale situazione politica. La conseguenza di tre elementi: dal punto di vista istituzionale, la crisi del sistema liberal-democratico; in ambito politico-sociale, il prosieguo del craxismo e dell’affarismo democristiano; culturalmente, la diffusione del consumismo esasperato e la crescita smisurata del ruolo della televisione. Il fenomeno invece
è il frutto di un sistema in cui la volontà popolare non è più stata in grado di esprimersi criticamente perché influenzata dal potere televisivo. A far da collante, il rapporto privilegiato con una parte del mondo cattolico. L’interesse della Chiesa è sempre stato la tutela dei suoi privilegi materiali (le finanze, il regime fiscale, l’esercizio di attività nel settore dell’assistenza), con tutte le sue ramificazioni (dalla sanità all’istruzione). Su questi punti l’appoggio del berlusconismo è stato netto: dall’esenzione Ici per gli edifici ecclesiastici, ai finanziamenti alle scuole private, fino al ruolo degli insegnanti di religione. Anche sul fronte del diritto alla vita e della bioetica, le garanzie sono state evidenti. Ad un certo punto però l’idillio sembra essersi interrotto. Come è accaduto altre volte nella storia d’Italia, l’abbandono da parte della Chiesa dell’appoggio a un regime o a un partito è anch’esso più un preannuncio che una causa del suo crollo. Dopo le posizioni prese da Avvenire e da Famiglia Cristiana, è partita dal mondo cattolico, nella sua base ecclesiale, ma anche in quella sociale, una parvenza di sfida al berlusconismo. Si tratta di capire che ruolo e che impegno questa sorta di “galassia cattolica inquieta” sarà in grado di fornire.
Una parte degli italiani
è consapevole di questa situazione, dell’indebolimento delle istituzioni dello Stato e delle sue leggi, così come della eccessiva frammentazione dei partiti di opposizione. Al di là dei sondaggi, basta guardarsi intorno per capire come la crisi della politica abbia ormai superato il limite di guardia, giungendo ad un punto tale da rischiare il tracollo, andando oltre il fenomeno dell’anti-politica e dell’astensionismo.
Rispetto al passato il berlusconismo appare, per certi versi, ripetitivo, ma per altri sembra essersi incattivito. Ha portato alle estreme conseguenze i suoi caratteri: il decisionismo diventato autoritarismo, il culto della personalit
à e del successo, il populismo, il disprezzo per la carta costituzionale, l’annichilimento del parlamento, l’attacco alla giustizia, il maschilismo, l’incitamento all’odio per il fisco, per la cultura, per la diversità, fino a vere e proprie forme xenofobe, ai limiti del razzismo, nei confronti della popolazione immigrata (fomentato dalla Lega). La crisi della politica tradizionale si è intrecciata con l’affermarsi dei suoi tratti più deleteri: la spettacolarizzazione e la banalizzazione dei contenuti, che hanno avuto come strumento cruciale di propaganda la televisione. A questo si è unita la disgregazione sociale dei ceti medi, dovuta non solo alla globalizzazione ma anche all’incertezza nata dal cambiamento dei rapporti tra lavoratori e imprese. L’appoggio che il berlusconismo ha dato ad una parte dei ceti medi del lavoro autonomo (con agevolazioni fiscali, condoni) a spese del lavoro dipendente e del mondo della cultura ha portato ad un’alta conflittualità sociale. Questa appare anche la logica conseguenza dell’affermarsi dell’individualismo proprietario dei ceti emergenti rampanti, che non ha paragoni in Europa, frutto della squilibrata redistribuzione della ricchezza, con il doppio regime fiscale e la mortificazione economica del lavoro dipendente, e risultato dell’ideale consumistico sviluppatosi a partire dagli anni ‘80 ed oggi entrato in piena crisi di identità.
Di fronte a tutto ci
ò, il grave errore commesso dall’opposizione è quello di marciare in ordine sparso: riformisti, radicali e cattolici hanno rivendicato le proprie ragioni di esistere, marcando le proprie differenze, finendo per risultare rissosi e velleitari agli occhi dell’elettorato, lasciando soli i soggetti più deboli, mentre sarebbe più opportuno pensare a un vasto, e non obbligatoriamente omogeneo, movimento di forze reali, partiti e gruppi, una rete di istanze e associazioni collegate dal basso, che facciano però riferimento ad una guida unitaria da eleggersi attraverso il meccanismo delle primarie, che rispetti le specifiche caratteristiche dei diversi partecipanti, ma che non inglobi le diversità e le rivitalizzi in un progetto politico e culturale nuovo, con un programma di governo alternativo ed efficace.
Proprio in contrapposizione a certi metodi di corruzione eletti ormai smaccatamente a sistema, senza pi
ù alcuna ipocrisia, sta emergendo nel Paese, seppure ancora in forma minoritaria, una forte percezione della questione morale, un’ansia di pubblica moralità, soprattutto nei giovani, tali da mettere in moto, se guidate e incanalate correttamente, un processo di contrasto alla spregiudicatezza e alla disinvoltura morale di cui fornisce prova il cosiddetto Palazzo. È questo uno dei segni più interessanti dell’azione di lungo periodo iniziata con la storia dei movimenti negli anni ‘70, proseguita durante il processo di secolarizzazione della società italiana (col contributo di una parte considerevole dei cattolici all’approvazione delle leggi sul divorzio e sull’aborto), nella battaglia di democrazia vinta contro il terrorismo di destra e di sinistra, nella parentesi di Tangentopoli contro la partitocrazia, nella lotta alla mafia e a tutte le forme, vecchie e nuove, di criminalità organizzata. E che è proseguita fino ad oggi, contro le leggi ad personam, il conflitto di interessi, la censura nei servizi di informazione pubblica. Esistono tanti giovani pronti a battersi perché la concezione utilitaristica e opportunistica della politica siano respinte, a partire dalle concrete responsabilità di ognuno nella vita quotidiana; giovani che rifiutano tutti i metodi non trasparenti, clientelari, familistici, tutte le zone grigie che si insinuano tra potere pubblico e poteri privati e che si sforzano, nella loro difficile esistenza, di rispettare le regole. Le virtù critiche e laiche di una parte della società italiana, un tempo maggioritarie, adesso non più perché sopite da anni di grigio conformismo, possono suscitare una reazione capace di incidere sugli orientamenti collettivi e destinata col tempo a crescere e a diventare maggioritaria. È necessario che in questo processo siano protagonisti laici, riformisti, radicali e cattolici, in un luogo in cui contino le competenze, la conoscenza e la professionalità e non la militanza burocratica e l’adesione acritica ai rispettivi leader o partiti di riferimento. Senza la politica, una politica completamente rinnovata ma forte, organizzata, creativa, senza un progetto culturale di ampio respiro, che coinvolga mondo laico e mondo cattolico, partiti e società civile, sarà impossibile costruire una reale alternativa sociale e culturale, in tempi brevi, al berlusconismo. È questa invece la vera nuova rivoluzione a cui ognuno è chiamato per fermare
la
deriva a cui sta andando inesorabilmente incontro il nostro Paese.
(Tratto da:
“Adista - Segni nuovi”, n. 87)
berlusconicraxi
(Archivio Alinari)

Comments