rivoluzioni

Global Spring ovvero la Primavera globale

proteste
Fonte: Linkiesta

Spring, 春天, ربيع, le printemps, Frühling. Quando la primavera comincia non la si può fermare.
L’inverno in politica sembra ormai passato e per un bel po’ non ritorner
à. Fuor di metafora, sembra proprio che stavolta, davvero, sia nata una “primavera globale”. Nord Africa, Spagna, Inghilterra, Grecia, Cile, Israele, Italia, Stati Uniti. Il 15 ottobre 2011 è previsto il primo appuntamento unitario. Ed è già storia.
Se proviamo a interrogare la storia sulle cosiddette "primavere dei popoli", dobbiamo tornare indietro, quantomeno, a due importanti precedenti: il Quarantotto ottocentesco e il Sessantotto del secolo scorso.
Il primo coinvolse soprattutto gli stati europei: Francia, Germania, Inghilterra, Spagna, Irlanda, Austria e Italia, e vide il susseguirsi di sommosse, rivolte, ribellioni, proteste da parte di giovani e lavoratori, a seguito della forte crisi economica, dell’aumento dei prezzi, della crescente disoccupazione. Da un lato, videro l’alleanza tra borghesia e proletariato urbano, dall’altro l’irrompere dei primi movimenti socialisti, con richieste spesso un po’ utopiche e, appunto, romantiche, nel tentativo di collegare l’individuo ad una comunit
à che non aveva ancora alcun tipo di carattere corale.
In particolare, venivano chieste: indipendenza nazionale, maggiore democrazia, libert
à sancita dalle costituzioni, migliori condizioni lavorative. I giovani furono, indubbiamente, i protagonisti di quei risorgimenti, con azioni spesso esaltanti, eroiche, plasmate da condotte di vita poco conformiste per l’epoca, quando non proprio coraggiose, o addirittuta trasgressive. Da Palermo, con la velocità della comunicazione telegrafica, la rivolta si spostò lentamente a Parigi, poi Vienna, Berlino, fino in Polonia, in Ungheria e Boemia.
Anche la seconda ondata rivoluzionaria mondiale, la primavera del Sessantotto, pur avendo, sostanzialmente e a conti fatti, fallito, ha di certo contribuito a trasformare il mondo. Si
è sviluppata, per lo più, in America, ma anche in Europa, in Francia e in Italia. I suoi caratteri furono, dunque, mondiali, con uno stretto rapporto tra spazialità e tecnologia: in questo caso più veloce del telegrafo, ma non ancora simultanea. Era già iniziata, comunque, l’epoca del “villaggio globale”.
Anche stavolta le proteste videro come protagonisti i giovani, in particolare gli studenti, che si organizzarono in modo spontaneo, improvviso, straordinario quanto a capacit
à di mobilitazione, al punto da diventare una moda. Assunse caratteri come l’anticapitalismo, il pacifismo, l’anti-razzismo, l’egualitarismo nelle scuole e nelle università, la richiesta di maggiori diritti umani e civili, la secolarizzazione. Allo stesso modo, da New York si spostò, stavolta ben più velocemente, a Bonn e a Parigi, poi Varsavia, Rio de Janeiro, Città del Messico, Roma, Pechino e Praga.
La primavera araba, iniziata lo scorso anno e proseguita fino a oggi, ha avuto luogo soprattutto nel Nord Africa e nel cosiddetto Medio Oriente, coinvolgendo paesi come l’Egitto, la Tunisia, lo Yemen, la Giordania, la Libia, la Siria, il Marocco. Ha avuto anch’essa, come protagonisti indiscussi, un’intera generazione di giovani, con forme di resistenza civile di varia natura, scioperi, manifestazioni, marce, cortei, sit-in, collegati attraverso l’uso della tecnologia, in particolare la simultaneit
à di social network, come Facebook e Twitter. Un modo per poter divulgare e rendere pubblici non solo nei rispettivi paesi ma anche all’opinione pubblica internazionale i tentativi di repressione.
Queste proteste si sono contraddistinte per le richieste di libert
à, democrazia, maggiori diritti civili e umani, contro la corruzione delle classi dirigenti e la crisi economica. Uno dei motivi che ha portato all’esasperazione le popolazioni arabe è stato infatti l’aumento dei prezzi dei generi alimentari di prima necessità. Da Tunisi sono istantaneamente divampate al Cairo, a Bengasi e Tripoli, e hanno portato, in alcuni casi, anche al crollo dei rispettivi regimi.
In tutti questi modelli c’
è in comune, con le dovute differenze di tempi legate alle diverse epoche storiche, la medesima capacità dei giovani di annullare lo spazio, comunicando: quasi per contagio.
Nel primo caso in modo trans-nazionale. Nel secondo, internazionale. Nel terzo, addirittura, globale. Nel primo caso, come imitazione di un gesto lontano sentito per le medesime ragioni civili, nel secondo caso, per identificazione planetaria, nel terzo per simultanea percezione della stessa necessit
à. Se il Quarantotto aveva affermato il diritto dei popoli a costituirsi in soggetti autonomi e indipendenti dentro un unico spazio europeo di stati, se il Sessantotto poneva l’umanità come soggetto richiedente diritti universali in un contesto mondiale, la primavera araba ha sancito la fine della distanza delle rivendicazioni e la contemporaneità e simultaneità dei suoi eventi.
E siamo all’oggi. La protesta giovanile pare essersi diffusa dappertutto, complice la crisi economica globale. L’enorme ondata di proteste da parte di giovani, lavoratori precari, disoccupati, ricercatori (ma anche pensionati), delusi dai partiti e dalla crisi provocata dalla finanza internazionale, che sta scoppiando nelle piazze di tutto il mondo, da Tunisi al Cairo, da New York ad Atene, da Santiago del Cile a Madrid, da Roma a Londra, da Gerusalemme per arrivare persino a Nuova Delhi, potrebbe dare un colpo mortale alla politica tradizionale. Oggi ce ne sono tantissimi, un po’ dappertutto, anche dove non si sono ancora mobilitati. ll 15 ottobre si riuniscono per il primo appuntamento unitario. Basta dare tempo al tempo. Qualcuno l’ha chiamata anti-politica globale.
Forme di anti-politica, per la verit
à, ce ne sono state diverse anche in passato. Per non andare troppo indietro nel tempo, basti ricordare, a livello internazionale, il popolo dei “no global” di Seattle contro il Wto, mentre per l’Italia si pensi al movimento dei girotondi, o al più recente popolo viola, contro le leggi ad personam. Ma, stavolta, sembra si tratti di qualcosa di diverso, più profondo, più radicato, che potrebbe affondare le sue radici proprio in quei nobili e storici precedenti che richiamavo all’inizio. Proviamo a capire perché.
Le piazze, le strade, i sit-in davanti alle scuole e alle istituzioni, in modo costante, permanente, duraturo, tutto questo sembra tornato di moda, dopo anni, anzi decenni di letargo. I giovani, ma non solo, se ne riappropriano con decisione, e si riscoprono rivoluzionari, ma in un modo nuovo. In Spagna li chiamano “indignados”, in Egitto, in Siria, in Tunisia sono i ragazzi della Primavera araba, in America sono chiamati “millenials”. Se le giovani e i giovani arabi hanno abbattuto dei regimi, i giovani “occidentali” si confrontano contro un altro tipo di tirannia o dittatura: quelle di una classe politica corrotta e abbarbicata al potere e di un’economia neocapitalista e neoliberista incapace di fornire adeguate risposte di crescita e di sviluppo economico per tutti. In una parola, contro la globalizzazione. Ma non nei termini del recente passato.
Sembra percepirsi, o quantomeno si intravede, una consapevolezza maggiore, una visione pi
ù critica e meno ideologica del processo globale. Non più la visione apocalittica del nuovo “impero”, che riduceva tutto a una concentrazione del potere mondiale nelle mani delle corporation multinazionali, del governo statunitense, delle potenze occidentali europee, in funzione di una cospirazione ai danni dei paesi più poveri e delle categorie sociali meno abbienti. Piuttosto, sulla scia delle analisi della cosiddetta world history, questi giovani considerano il concetto di democrazia occidentale moderna, per varie motivazioni culturali, inadeguato per la comprensione della vita moderna e per capire gli stili di vita di alcuni popoli o paesi orientali, ad esempio come l’India, la Cina o il Nord Africa.
Non si tratta, dunque, di esportare modelli di democrazia laica e democratica di stampo occidentale, possibilmente di stampo liberalista, nei paesi orientali, ma di tradurre certe categorie in contesti molto diversi per cultura e tradizione. Cos
ì come si tratta di recepire aspetti e modalità dalle altre culture. Viceversa, l’esercizio del metodo comparativo tra le culture significa far interagire le diversità attive dei comportamenti individuali e collettivi nei diversi contesti, sottolineare e, nello stesso tempo, considerarle come potenziali alternative scartate o sconfitte dalla storia, restituendo piena autonomia e dignità al soggetto umano in quanto tale, alle sue scelte e alle sue battaglie.
Questo confronto costruttivo aumenta le potenzialit
à della globalizzazione, in particolare sotto l’aspetto della combinazione di nuove tecnologie, culture scientifiche, libertà individuali. Se dunque la globalizzazione (anche sull’onda delle più recenti analisi degli studiosi economici americani) è vista da tutti loro come un completo fallimento (almeno dal punto di vista economico), proprio questa dimensione culturale della globalizzazione, che è evidente nelle critiche rivolte dai giovani indignati alle classi dirigenti che hanno governato questi decenni di transizione, cioè la continua ricerca degli intrecci e degli scambi che nella human community, sembra riuscire a superare i confini e le identità ideologiche del più recente passato.
Questi giovani di diversi continenti sono tutti accomunati da alcuni tratti distintivi: nella maggior parte sotto i trent’anni, con un alto livello di istruzione, usano Internet, l’i-Phone e i portatili, molto spesso sono disoccupati o comunque fanno lavori precari, sono attenti alle tematiche ambientali e dei diritti umani e civili, prendono di mira la classe politica e dirigente dei loro paesi, ma anche le corporations, le multinazionali, le banche. 
Una cosa
è certa. Rispetto ai predecessori questa generazione ne ha fatta di strada. Lasciamo stare le dirigenze dei partiti, buone solo a strumentalizzare le proteste e a metterci sopra il cappello. Se Facebook, Google, Twitter, You-tube, Wikipedia si mobilitano accanto a loro, questi movimenti potrebbero arrivare lontano e prendersi in mano il proprio futuro. Occorre, però, un progetto più definito, chiaro, una nuova cultura così come una nuova politica. Occorre coordinarsi, darsi obiettivi di rappresentanza politica, acquisire luoghi e spazi fisici oltre che virtuali.
Dalle proteste di questi ultimi tempi viene fuori con chiarezza almeno una richiesta di partecipazione democratica, legalit
à, giustizia sociale e fiscale, politiche ambientaliste, meno consumismo, lavoro più stabile, istruzione gratuita. Questa generazione indignata, delusa, arrabbiata, poteva essere un bacino fertile per le varie opposizioni di sinistra, ma i leader di questi partiti se li sono persi per strada. Le sinistre non hanno saputo intercettare queste richieste di cambiamento, non hanno saputo canalizzare queste energie disperse, perché non si sono sapute differenziare abbastanza dai vari governi, dalle loro politiche moderate e conservatrici. Non hanno saputo neppure differenziarsi con un riformismo solo vagamente abbozzato. In una parola hanno contribuito ad alimentare una cultura e una politica troppo consolatorie.
Forse ormai
è tardi per arginare o incanalare questa protesta. Non rimane che osservarla, farsene interlocutori, e seguirla, nella speranza che non porti a scosse troppo traumatiche e che trovi la sua dimensione di progetto e costruzione di una realtà politica e sociale veramente alternativa. 

Fonte: Linkiesta

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