calvino

Storia di un grande progetto

Libri, uomini e idee erano, ieri, una miscela importante per costruire il futuro; forse lo sono ancora oggi, per chi voglia costruirlo”. Con queste parole si chiude il libro di Gabriele Turi, Casa Einaudi. Era il 1990. A circa dieci anni di distanza, Pensare i libri di Luisa Mangoni ripercorre le vicende della casa editrice Einaudi dalla fine del fascismo ai primi anni Sessanta, e ci presenta uno sguardo a tutto tondo sulla cultura, e di conseguenza, sulla società di quegli anni.
Le pagine dense di emozioni di questo testo danno un’immagine della casa editrice torinese, alla fine della guerra, come una casa da abitare, con muri spessi, stanze accoglienti di materiale vivo. Sembra quasi di vedere impegnati Ginzburg, Pavese, Balbo, Vittorini, poi Calvino e gli altri, impegnati a produrre materiale (pensieri sui libri). Materiale per
ò che questi speciali “muratori” della cultura spesso producono in proprio, senza mediazioni, senza la minima attenzione l’uno per l’altro, ognuno col suo gusto proprio di colore, peso, spessore. Ed il risultato appare subito straordinariamente creativo, stimolante. Salvo poi crollare alla distanza, ad un certo punto della costruzione, dopo averne con fatica gettato le basi. Non è solo per motivi esterni (ideologici, economici) che dopo la metà degli anni cinquanta la casa crolla, annacquando visibilmente i suoi contenuti, ma anche per questioni personali. Viene a mancare il collante necessario a tenerla in piedi.
Questo libro
è la storia di una grande illusione. Ci fa scoprire oggi come certi scrittori abbiano creduto di poter iniziare un dialogo, di poter affrontare argomenti sulla società civile, confrontandosi non con i soliti interlocutori di sempre, i partiti politici, ma con un elemento portatore di cultura “pura”, quale era la casa editrice, e di farlo, anche se non in modo isolato, proprio dal suo interno. Probabilmente si illusero di poterlo fare, dirà qualcuno, guardando pragmaticamente ai risultati conseguiti. Certo è che cercarono di tracciare un ideale percorso culturale, ma ancor più esistenziale. Un percorso in cui è racchiusa, certo solo in nuce, probabilmente in maniera parziale, una risposta più ampia, che va colta individualmente.
E’ emblematico il titolo. Dietro il modo di pensare un libro o una collana tematica c’
è il modo stesso di intendere la vita. Pensare un libro significa soprattutto opporsi ad un immobilismo d’idee che riduce ogni cosa a semplice involucro di sé, che uccise un tempo la libertà, la critica, la diversità. Nella casa editrice si confrontano a “colpi di libro” diverse filosofie di vita. Si intrecciano, si compenetrano, si filtrano a vicenda, scontrandosi.
Nelle vicende della casa editrice degli anni che precedono la guerra (almeno fino alla caduta del fascismo) si confrontano, mescolandosi, due di queste filosofie. Sono rappresentate dall’opera e dalla personalit
à stessa di Leone Ginzburg e Cesare Pavese. Grazie a loro si possono individuare le caratteristiche peculiari della mentalità che avrebbe assunto la casa editrice a partire dagli anni trenta, con elementi comuni ma anche profonde differenze. Due aspetti mettiamo qui in luce. In Ginzburg ritroviamo “quel retroterra comune dell’antifascismo ma ancora di più una sorta di familiarità percepibile nei modi di essere prima che di pensare, in un tessuto connettivo di atteggiamenti e di cultura” (p. 5). Nel percorso di Pavese è più evidente il richiamo ai libri, alla storia pensata. Scriveva nel 1926: “Non vivo solo dei libri e per i libri, ma alla fin fine, a dischiudermi la vita sono stati in gran parte i libri” (C. Pavese, Lettere 1924-44, Einaudi, Torino, p. 25). Per Pavese, scrivere, come anche tradurre, è qualcosa che si impara, “attraverso uno scavo capace di portare alla luce il sé e il fuori di sé” ( p. 15). Siamo nel decennio 1935-45. Nascono in quegli anni idee nuove, intuizioni, per collane editoriali che si diversificano. Si delinea così una struttura ben definita della casa editrice con un carattere dinamico e innovativo. E’ una prova di eclettismo che combina e intreccia interessi e sollecitazioni diversi, espressi dentro e fuori la casa editrice.
“Essere nel proprio tempo, guardare al proprio tempo” :
è questa la parola d’ordine in cui si colloca la costruzione delle collane. Si nota però che, pur all’interno di una tendenza d’apertura ad un mercato più vasto, la programmazione manca sostanzialmente della cultura espressione del Novecento. Non che non percepisca le inquietudini manifestate dai giovani della “generazione perduta” (G. Pintor, Il sangue d’Europa, Torino, Einaudi, 1965, p.186) che in quel momento trovano l’esplicitazione in memorie e autobiografie. A far proprie certe motivazioni esistenziali è la personalità di Giaime Pintor. Il “gioco dei progetti” così lo chiama in una lettera del 1941 (G. Pintor, Doppio diario, Torino, Einaudi, 1968, p. 155). Sarebbe diventata poi una prassi delle discussioni collegiali in quel laboratorio intellettuale che fu la Einaudi di allora. Si inizia a delineare quel gruppo di intellettuali che darà inizio, negli anni quaranta, alla “scuola delle invenzioni” (Doppio diario, cit., p. 156). Gli intellettuali, nascosti durante le ultime fasi della Liberazione, dopo la guerra provano a conoscersi per poi definire la linea della casa editrice. Quello della conoscenza è un aspetto non marginale, insieme alle difficoltà nel riconnettere frammenti di storie individuali, il crearsi di solidarietà esclusive. “Come cani di razza questi intellettuali davano la sensazione di annusarsi a vicenda” per provare dal confronto a superare o comunque almeno a chiarire contrasti su idee, diffidenze non sempre reali ma semplicemente pregiudiziali. All’interno di questa nuova mentalità di elaborazione, intervenendo direttamente nel vuoto della società civile che il fascismo e la guerra avevano lasciato, si possono distinguere altri due modi diversi di concepire la vita: uno quello che fa capo a Elio Vittorini e al suo attivismo da rivista ( “Una rivista se ha il diritto di vivere è perché esprime un modo di pensare”: cfr. p. 222), calata direttamente nella realtà; l’altro quello di Pavese (“Se invece di far giornali, faceste libri, sarebbe un po’ meglio”: cfr. p. 246), il quale dimostra un risentimento verso il “nuovo” indiscriminato caldeggiato da Vittorini, accusando la troppa fretta di dimenticare il passato. In realtà Vittorini metteva in rilievo le cesure tra passato e presente mentre Pavese tendeva a valorizzare gli elementi di continuità. Sono due elementi che si intrecciano costantemente nella storia della casa editrice. Giulio Einaudi, in questi momenti caldi del dopoguerra, sposa la linea di innovazione e dinamismo rampante rappresentata da Vittorini, concedendo maggiori poteri alla redazione milanese. Cerca però di mediare le due tendenze, provando a tirare fuori il meglio da entrambe. Ad assumersi il ruolo di mediatore è Felice Balbo, l’unico personaggio della “vecchia guardia” aperto ai nuovi spunti vittoriniani.
Un altro elemento che caratterizza la linea editoriale di Einaudi, negli anni della ricostruzione nazionale,
è dato dalle motivazioni direttamente politiche che la casa editrice si assume, in un rapporto privilegiato con il Partito Comunista Italiano che non intende tuttavia essere di identificazione alla sua politica culturale. Compito della casa editrice non è certo quello di una direzione sul piano ideologico, ma di orientamento culturale attraverso la ricerca, la discussione, la prova e la riprova. Una cosa è garantire l’unità ideologica dei lettori, un’altra quella di elaborare linee di ricerca critica. In questo contesto si colloca il difficile e delicato rapporto tra la Einaudi e il Pci. Il partito sembra guardare ad essa come a uno spazio di interesse non strettamente partitico. Anche se, nel corso della vicenda editoriale di quegli anni, non mancano esempi di attacchi diretti da parte della sua dirigenza del partito o di intellettuali ad esso organici nei confronti della casa editrice.
Alla fine, stando ai fatti, chiusa la rivista “Politecnico”, ridimensionati i ruoli della sede di Milano e di Vittorini, si potrebbe credere che sia la linea di Pavese ad avere la meglio. Ci
ò è vero ma solo in parte. Senza “Politecnico” la Einaudi non avrebbe il carattere assunto negli anni Cinquanta. E’ stata proprio la cosiddetta “volgarizzazione politecnica” (p. 246) a giovarle visibilmente.
A partire dal 1949 la casa editrice torinese sembra tornare su posizioni tradizionali di lunga durata, tenendo certamente in conto gli elementi nuovi che sono approdati. Non un ripiegamento, dunque, ma la presa d’atto che non
è lo spazio immediatamente politico bensì l’incidenza culturale di più lunga durata, quello che la Einaudi deve far suo.

calvino
(Archivio Alinari)

Nei primi anni cinquanta entrano nella casa editrice nuove figure intellettuali. I modi di intendere la realizzazione dei libri si diversificano. Al pensiero di Leone Ginzburg, Pavese, Vittorini si aggiunge quello di Natalia Ginzburg e quello di Calvino. E’ una caratteristica peculiare che appare nei giudizi editoriali della Ginzburg, diretti, acerbi, quella di non considerare un’opera come rappresentante di un genere letterario o di una corrente, ma di concepirla in s
é. Calvino segue questa linea innervandola di contenuti suoi propri, pacati ma decisivi, definiti in uno stile che farà scuola per le nuove generazioni di scrittori. Entrambi questi modi di intendere il pensiero sui libri contrastano decisamente con l’idea vittoriniana. Ci sono scritti che “pur non facendo ancora libro” secondo un’espressione che usavano spesso Pavese e Vittorini nel loro lavoro editoriale, di cui si trovano molte tracce nelle lettere e negli incartamenti dell’archivio Einaudi - hanno la dignità per diventare pubblicazioni. Questo tipo di scritti Vittorini invitava a sperimentare: “O libri che si impongono per la loro forza poetica o intellettuale, o libri che riescano ad essere almeno innocenti e cioè ad avere una validità documentaria” (p. 661).
Siamo giunti intorno agli anni 1950-55. In questo periodo si notano i primi segni di uno sbandamento, di una incertezza reale nel giudizio da dare sui libri; ognuno cerca per suo conto, valuta e affronta possibili prospettive diverse. Le tensioni crescenti tra le varie anime della casa editrice, ormai da tempo percepibili in una serie di incomprensioni, portano alla sempre pi
ù pressante richiesta dell’avvio di una riflessione, non tanto sulle collane della Einaudi, quanto sul suo progetto complessivo. Si aggiungono reazioni istintive come segnali di una progressiva personalizzazione delle posizioni. Pure tra dissensi, tensioni, differenze d’ottica, si può cogliere qualcosa che va in una direzione diversa: i segni, dopo una lunga crisi, del progressivo cementarsi di un gruppo, alle soglie del 1956 (in concomitanza con il XX congresso del Pcus e dei fatti ungheresi pare che la cellula aziendale della Einaudi inizi a muoversi all’unanimità, almeno per quanto riguarda l’atteggiamento da tenere nei confronti del Pci e dei suoi intellettuali). Non si può capire il significato del comportamento collettivo della redazione Einaudi se non si tiene conto di quanto sia costato lo scontro del 1951 (quando Vittorini aveva denunciato certe divergenze e si era allontanato dal partito) e delle conseguenze che esso aveva avuto negli animi degli intellettuali einaudiani. Sempre più ragioni politiche, morali e umane si sovrappongono rimettendo tutto in discussione.
Sono anni questi in cui si assiste ad una specie di ritorno al passato. Tempi nuovi, tempi di tornare alla politica, di abbandonare il disimpegno letterario, lo sguardo asettico ma di lunga durata sulla realt
à. Vengono così tagliati anche i residui fili che collegano la casa editrice al Pci. Sono anche gli anni dei nuovi arrivi. In un consiglio editoriale, Norberto Bobbio si ripromette di fare qualcosa in più, di riprendere il ritmo di un tempo, ricordando agli altri l’importanza dell’innesto di giovani intellettuali vivi all’interno della casa editrice, di cui lui stesso confessa di essere un attento osservatore durante le “riunioni del mercoledì” (p. 877). Si prospetta l’ipotesi del formarsi di una nuova cultura, orientata a sinistra ma non più direttamente legata al Pci, di cui Fortini, e successivamente Solmi e Panzieri, giovani intellettuali emergenti, si fanno, in modo diverso, portatori. Sono iniziative e idee che vengono a poco a poco emarginate, fino ad esaurirsi da sole. A questo punto non rimane che una letteratura di ambienti circoscritti, sul filo della memoria, esemplare ma rivolta al passato. E’ il campanello d’allarme della fine di un stagione di ricerca letteraria viva ed entusiasta, che aveva visto la Einaudi sempre impegnata dentro la società, al passo coi cambiamenti
culturali e sociali della realt
à.
Un bel libro di storia delle idee o di storia della letteratura non
è affatto completo se non sa suscitare in noi interrogativi sugli eventi sociali e politici che percorrono gli anni presi in esame. Infatti la storia della letteratura ha implicita in sé la storia politica degli eventi che vi si narrano, cosa che viceversa non vale. Studiando la storia di quegli anni, abbiamo creato dentro di noi infinite immagini di quei protagonisti. Ma “vederli” adesso insieme, riuniti in un luogo, che ci simboleggia l’empireo di un certo tipo di cultura, “vederli” discutere animatamente sulle storie raccontate da altri, sul significato di proporre una di esse anziché un’altra, non può rimanere semplicemente una sensazione allo stato di foto mentale suscitata dentro di noi. Dalle immagini regalateci da questo bel testo ci pare che si debba trarre spunto per pensare i libri noi stessi, pensarli scegliendoli, facendoli così rivivere, suscitando dubbi e riflessioni. Come auspicava la frase che chiudeva Casa Einaudi, con questo nuovo testo troviamo uno spunto decisivo e anche un punto di riferimento per un esempio reale, concreto e definito di un modo di fare cultura.
Colpisce soprattutto il fatto che nel libro, intessuto di rigorose citazioni (da lettere, verbali di riunioni, incartamenti vari consultati in casa editrice) si respiri liberamente l’atmosfera di quegli anni. Scavando pi
ù a fondo si può perfino individuare, nascosta dietro le scelte editoriali, la personalità dei protagonisti, evidente soprattutto dai dibattiti in casa editrice. Potrebbe apparire ad una prima occhiata, con le sue mille pagine fitte di citazioni, note, rimandi bibliografici, passi interi di autori, il classico studio monografico di tipo accademico. Invece non lo è affatto. E’ un’autobiografia collettiva, una sorta di diario comune, nelle parole dei più grandi scrittori del nostro tempo che collaborarono attivamente alla vicenda editoriale. Seguendone le vicende, i contrasti, i dialoghi, si finisce per parteggiare con questo o con quell’altro. “Storie individuali e storie collettive si mescolano, ma naturalmente, storie di libri: quelli pubblicati ma soprattutto quelli solamente pensati” scrive l’autrice nella premessa (p. IX).
Pensare i libri
è dunque una storia di letteratura, ma più ancora di uomini. E’ nel momento progettuale che si colgono più chiaramente la sintonia o la dissonanza con la cultura del tempo, la capacità di incidere su di essa o di farsene trascinare. L’autrice sa mettere bene in luce, ancora prima della reale consistenza del lavoro pubblicato da quelle eminenti personalità della letteratura nel dopoguerra (Pavese, Balbo, Vittorini, Calvino e altri) il pensiero che sta alla base anche di quei testi che finiscono per non essere pubblicati, di quelle collane abortite per motivi ideologici, economici, personali.
L’analisi dei rapporti tra gli intellettuali in quel sodalizio, in quella casa “comune”, quale
è stata per anni la Einaudi, ci permette di riflettere sul significato del pensiero individuale sui libri che si confronta con l’altro da sé, fino a diventare collettivo. La scelta o meno di un testo significa direttamente la possibilità che sia letto da un più o meno vasto numero di persone. Il valore di un pensiero originale, nella fattispecie sulla scelta di un libro, quando si confronta con un altro pensiero sullo stesso argomento di altrettanta rilevanza critica, seppure a volte di contenuto opposto, aumenta moltissimo. E’ da questo confronto continuo che emergono le idee più nuove e originali di un testo. Solo così esso acquista il grado massimo di elevazione morale per tutti o comunque, per più persone, divenendo collettivo. Un percorso del genere è stato la prassi che ha sancito i meccanismi di scelta e di verifica dei libri, all’interno della casa editrice. Scrittori rinomati colgono l’occasione per migliorarsi, ritrovarsi, nel confronto e nello scontro serrato, spesso scherzoso, con gli altri. Gli individui pensano da soli ma si propongono sempre agli altri. L’altezza di un pensiero individuale conta come possibilità che venga raggiunto da tutti.
Certo va anche detto che nel libro, se lo confrontiamo al gi
à citato testo Casa Einaudi, manca un’analisi coerente su un aspetto che per Turi è decisivo nel ruolo che la casa editrice ha svolto in quegli anni: lo sviluppo della collana di testi storiografici. Luisa Mangoni minimizza, parlando di difficoltà di comprendere la realtà, evidente proprio nell’incerto modo di procedere nello sviluppo del settore storiografico. Gabriele Turi, aprendo una parentesi sulla situazione attuale dell’editoria riguardo alla pubblicazione di testi storiografici (tanti libri di tante case editrici ma pochi contenuti ed una carica ideologica minore) sottolinea che il peso della disciplina della storia nella formazione dell’uomo di cultura e nell’educazione civile e politica si è intensificato proprio in quegli anni del secondo dopoguerra grazie al ruolo svolto dalla casa editrice torinese, per poi avere il suo culmine nel 1968, fino ad andare incontro ad una crisi netta durante gli anni successivi. Turi evidenzia, riportando esempi di collane e autori, il modo in cui l’Einaudi, in quegli anni, ha costituito, nel settore storiografico, proprio una supplenza al ruolo dell’Università stessa. Si tratta di un’analisi sull’orientamento ideologico di questo ruolo in perfetta sintonia con quanto sostiene l’autrice: ci sono discussioni e contrasti tra i vari orientamenti culturali (tra cui ovviamente il marxismo), si registrano inflessioni diverse.
E’ chiaro che ci troviamo di fronte ad un modello di cultura e progettualit
à editoriale complesso, mai univoco o artefatto, ma legato alle vicende della società intera. Intellettuali diversi diedero vita ad un prodotto culturale complesso, multanime e originale, anche se un po’ illusorio. “C’era un elemento che accomunava Ginzburg, Pavese, Pintor, Bobbio, Alicata, Vittorini e altri” scrive Balbo subito dopo la fine del rapporto di lavoro alla Einaudi “Non era il laicismo della cultura, non era il razionalismo, non era il comunismo come tale, neppure per i comunisti. Era la causa del rinnovamento, la causa rivoluzionaria. Ma l’incontro di tutti questi soggetti intellettuali era soggetto al fallimento per due motivi: la sollecitazione interna della crescita organizzativa e quella esterna della situazione storico-politica generale” (G. Turi, Casa Einaudi, cit., 263-264). Viene da chiedersi se sia possibile proporre un modello di cultura del genere oggigiorno. Mancano i referenti intellettuali, manca perfino la casa comune. Non manca però l’elemento più importante: i pensieri e le idee dell’uomo, tutto un mondo sommerso di libri da pensare.

(Tratto da:
“Italia contemporanea”, n. 225)

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(Fonte Internet)

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