Giambattista

Scirè

 

“Il Regno”, n.22, dicembre 2006, p. 782

(e anche)

“Il Ponte”, n. 12, dicembre 2005, pp. 109-112


La democrazia alla prova

Cattolici e laici nell’Italia repubblicana


di Mario G. Rossi

Sono molti i fili conduttori che si intrecciano in questo lavoro e ne sottolineano la ricchezza e il significato. Uno è certamente la personalità di Mario Gozzini e il suo

ruolo culturale e politico nel mondo cattolico fiorentino e nazionale. Ma la figura di Gozzini è punto di riferimento di un confronto e di una progressiva convergenza di intellettuali e politici cattolici e laici, liberaldemocratici e marxisti, che costituisce  l’asse principale lungo cui si svolge l’insieme delle vicende trattate in queste pagine.

All’origine vi è il Dialogo alla prova, la nota iniziativa di Gozzini, che rappresenta un punto di svolta del confronto tra cattolici e marxisti, non solo nel contesto italiano. Preceduto da una densa e articolata ricostruzione delle sue scaturigini nell’ambiente  cattolico e intellettuale fiorentino, dove personalità di indubbi spessore, da La Pira a don Milani, da Ernesto Balducci a Nicola Pistelli, sono al centro di rapporti politici e culturali proiettati per lo più in una dimensione nazionale e spesso internazionale, il Dialogo  diventa un passaggio di fondamentale importanza del  processo di allargamento e di consolidamento della democrazia italiana, avviato con l’esperienza  di governo del centro-sinistra negli anni Sessanta.

Il confronto di cui si dà conto in queste pagine non si concentra su temi politici o economici, ma investe soprattutto visioni del mondo, sistemi, valori: religioni e cultura, le garanzie di libertà nello Stato e nella società; il pluralismo in una società socialista; lo Stato laico e non ideologico. Un dialogo di grandi idee e, perché no?, di utopie; che vuol essere prevalentemente culturale, ma i cui risvolti politici sono trasparenti in ogni passaggio; che tocca problemi di lungo periodo, ma insieme investe l’attualità e lascia intravedere soluzioni anche in termini di alleanze e di programmi.

Terreno di incontro e insieme l’obiettivo di fondo di questo dialogo sono la prospettiva di un cambiamento radicale della società e dei rapporti internazionali, di

cui cattolici e comunisti, portatori entrambi di concezioni organiche e progressive, sarebbero i protagonisti. Non sono molti né dichiaratamente definiti i richiami agli strumenti cui dovrebbe essere affidato il cambiamento: e certo né i principali interlocutori marxisti, da Ingrao a Lombardo Radice, né gli intellettuali cattolici coinvolti sono particolarmente attenti agli strumenti politico-amministrativi ed economico-sociali rispetto ai contenuti teorici del dibattito. Anzi, affiora a più riprese una esplicita diffidenza verso una linea politica, attribuita in primo luogo ad Amendola, che si teme, come scrive Gozzini nel 1965, «finisca per trovare nel laicismo un terreno ricettivo e diventi una componente fondamentale del grande disegno di socialdemocratizzazione europea». (E dal canto suo, Amendola, scrivendo qualche anno dopo a Livio Labor, incalza: «credo che più che una proposta di società, sia necessario affrontare i problemi politici ed economici, che si pongono con drammatica urgenza».)

Incontro di due integralismi estranei ad una moderna prospettiva riformista, potrebbe essere la conclusione di una critica superficiale e ripetitiva. In realtà è l’ampiezza delle prospettive e delle problematiche che toglie spazio a una disamina puntuale della concreta prassi riformista e tanto più all’approfondimento di specifici provvedimenti legislativi. Del resto, lo stesso dibattito teorico-politico sulle riforme (di struttura, correttive…) già nella fase ascendente del centro-sinistra aveva mostrato un rilevante grado di indeterminatezza, aprendo la strada alla delusione e al ripiegamento, di cui il dialogo degli anni Sessanta voleva essere un’alternativa.

Inoltre la dimensione cui soprattutto si guarda e che fa costantemente da sfondo ai temi affrontati è quella internazionale: il rifiuto della guerra fredda, la scelta di distensione, la liquidazione del colonialismo e il riscatto dal sottosviluppo. L’idea guida del “ponte”, si potrebbe dire ricorrendo a un tema centrale della simbologia lapiriana: il ponte tra Oriente e Occidente, tra ebrei e arabi, tra cristiani e musulmani; il ponte sul Mediterraneo, fra le coste dell’Africa e dell’Europa. In questa prospettiva lo spazio per incontri di minore portata, per la ricerca di obiettivi limitati, per realizzazioni immediate si contrae inevitabilmente. Come scrive lo stesso La Pira a Enrico Berlinguer, nel 1969, «Chiesa cattolica e stati socialisti (non un marxismo vago): questa “la grande” (inevitabile) convergenza dei decenni che sono davanti a noi».

Nell’obiettivo della collaborazione internazionale tra tutte le forze di progresso si ritrova probabilmente anche l’eredità della grande alleanza antifascista della seconda guerra mondiale, rilanciata da quella che sembra l’apertura del sistema sovietico con Krusciov, dalle speranze suscitate dalla breve esperienza di Kennedy, dal messaggio di papa Giovanni XXIII. Per contro l’Occidente democratico e cristiano si muove in una direzione opposta, che offre pochi appigli a convergenze ideali o a un incontro sulle cose. La guerra del Vietnam rappresenta in questo quadro la contraddizione più lacerante, non solo per la complicità o la passività delle classi dirigenti e dei governi alleati degli Stati Uniti, ma per il silenzio della Chiesa ufficiale, se non addirittura per il truce settarismo di alcuni dei suoi esponenti, come il cardinale Spellman («Gli Stati Uniti stanno combattendo nel Nord Vietnam una guerra santa»). Ma non meno preoccupante è il messaggio che viene dall’America Latina, dove al radicalismo della teologia della liberazione fa da contrappeso il conservatorismo e l’allineamento al potere di tanta parte della gerarchia ecclesiastica.

Alla sensibilità anti-imperialista e antifascista sul piano internazionale, rilanciata con forza dall’avvento del regime dei colonnelli in Grecia e dal ruolo catalizzatore della mobilitazione democratica che esso assume, al posto dei boccheggianti regimi franchista e salazarista, corrisponde l’impegno antifascista sul piano nazionale, unito alla consapevolezza della peculiare impronta clerico-fascista che la spinta reazionaria è destinata a riproporre nel contesto italiano.

Per questo un altro sfondo del dialogo è l’eredità della Resistenza, con il contributo di cambiamento democratico che essa ha portato nella vita politica del paese, con le prospettive di rinnovamento che ha iscritto nelle pagine della Costituzione. Non solo, ma è trasparente il nesso con un patrimonio di idee ancora precedente, per quanto trasfuso nella vicenda resistenziale: quello del cosiddetto revisionismo risorgimentale, il profondo ripensamento critico cui, negli anni Venti e Trenta, intellettuali laici e cattolici, da Gobetti a Gramsci, da Salvemini a Sturzo, dai Rosselli a Francesco Luigi Ferrari, sottoposero il Risorgimento e la storia nazionale, alla ricerca delle cause e dei precedenti del fascismo nella politica, nella società, nelle istituzioni, nella cultura, nel carattere degli italiani.

È un messaggio che è stato riletto e rilanciato in occasione della crisi scatenata dal governo Tambroni e con la successiva ripresa dell’antifascismo e dell’eredità della Resistenza come fondamento unitario della democrazia italiana. Ma, dopo il rapido esaurirsi delle illusioni del centro-sinistra, scandito da quel primo esperimento di strategia della tensione che è il piano Solo del generale De Lorenzo nel 1964, la gravità delle contraddizioni che si addensano e che esploderanno nel decennio successivo al 1968-1969 è ormai evidente, mentre la fine della stagione del Concilio e l’asfittico  processo dell’unificazione  socialista  segnalano  il  progressivo restringimento delle prospettive di sviluppo democratico del paese.

È ora che, oltre le alternative di sistema, e senza peraltro accantonarle, comincia a delinearsi l’esigenza di un più definito dialogo sulle cose, che, accanto alle riforme strutturali, metta in primo piano la salvaguardia della democrazia e soprattutto il rilancio di uno Stato sempre più impotente (o complice) di fronte alle manovre eversive e sempre meno in grado di corrispondere al suo compito storico di promotore dello sviluppo. Su questo terreno muoverà il difficile processo di costruzione della Sinistra indipendente, «un’azione a lungo termine», scrive Adriano Ossicini a Ferruccio Parri, che ne è l’ispiratore, «perché finalmente cessi in Italia una democrazia bloccata e si arrivi ad un’alternanza democratica che è quella tra moderati e conservatori da un lato e progressisti dall’altro, al di là di unità forzate o di rigidità ideologiche». La «testimonianza pubblica e profetica», che don Lorenzo Bedeschi, l’autore del controverso volume del 1966 La Sinistra cristiana e il dialogo con i comunisti, divenuto promotore e coordinatore, per la parte cattolica, dell’iniziativa di Parri, indica a Gozzini nella scadenza elettorale del 1968, costituisce appunto lo sbocco pratico del Dialogo alla prova, destinato peraltro a realizzarsi solo alcuni anni più tardi.

L’ampia ricerca di Giambattista Scirè ripercorre dagli inizi lo svolgersi di queste vicende nell’arco di oltre un ventennio, attraverso un sistematico lavoro di scavo archivistico e un’attenta ricognizione degli scritti e delle lettere dei protagonisti. Ne esce un quadro  ricco di personaggi e di iniziative, di sensibilità diverse e di finalità convergenti, di motivi religiosi e culturali, politici e ideologici, che contribuiscono a delineare lo

spaccato di un’Italia in trasformazione, alla ricerca di nuovi equilibri. Un processo ancora in corso, anche se molti dei punti di riferimento di allora sono venuti meno, che offre al lettore spunti di riflessione di singolare attualità.