All'alba si chiudono gli occhi. Il fenomeno dei suicidi sul lavoro

suicidio
Fonte: Linkiesta

Ogni tanto qualcuno manca all'appello. Si è tolto la vita. Di solito, nei film, è all'alba che succede. In realtà, l'orario, mai come in questi casi, è un particolare con poco significato. Di recente è accaduto a Lucio Magri. Era stato un intellettuale e un comunista (non quando lo erano in tanti, ma quando era molto meno di moda). Si sarebbe dovuto parlare di lui, come si fa quando muore una personalità che ha avuto un certo ruolo nella società e nella cultura, o anche come si parla di qualsiasi altra persona comune quando viene a mancare. Parlare cioè, nel bene e nel male, di quello che ha fatto in vita. Punto. Nei giorni seguiti al suicidio (assistito) di Magri, invece, ne hanno scritto in tanti, direi in troppi. Da destra a sinistra, dal mondo laico a quello cattolico, tutti strumentalizzando, chi più chi meno, una morte. Roba da far venire il voltastomaco. L'unico motivo per cui, forse, sarebbe stato corretto parlare di un tale personalissimo, e come tale non giudicabile, gesto, poteva essere, semmai, l'immediata approvazione in parlamento di una legge netta, chiara, definitiva, sul fine vita. Per nessun'altra ragione sarebbe stato giusto parlarne nel modo, a dir poco invasivo, spettacolare, roboante, come se ne è parlato. In primis, per rispetto dello stesso Magri, che non avrebbe voluto. Ma soprattutto per un'altra ragione.
Chi ha qualche anno di et
à, o chi magari ha studiato un po' la storia, o semplicemente ha ascoltato la canzone Primavera di Praga di Francesco Guccini, ricorda e sa chi fu Jan Palach, il patriota cecoslovacco che si bruciò vivo il 19 gennaio 1969 in piazza Venceslao a Praga per protestare contro la repressione sovietica. Quel suicidio fu, oggettivamente, un gesto rivoluzionario, perché assurse ad emblema, a simbolo, andò oltre il significato specifico e personale della singola, quanto peraltro importante, vita umana, ma valse per una moltitudine, fu qualcosa di corale. Come sappiamo la storia, a volte, si ripete. Ecco che allora Mohamed Bouazizi, il 17 dicembre 2010, si dava fuoco in una strada della Tunisia per protestare contro lo stato e la polizia che non gli permettevano di esercitare quello che, a ragione, riteneva un suo diritto: la possibilità di lavorare per guadagnarsi da vivere. Quel gesto di protesta estremo, quel suicidio, come fu nel caso di Palach, è altrettanto rivoluzionario, perché ha innescato una rivolta collettiva, che ha dato il via alla Primavera araba. Dalla rivoluzione dei gelsomini in Tunisia partiva quella lotta di liberazione, a livello di massa, che, al grido di "Pane e libertà", si espandeva un po' dappertutto nel Maghreb e poi fino in Siria. Circa un mese fa, Dawa Tsering, un monaco tibetano, si è bruciato vivo nei pressi del monastero di Kardze, invocando la libertà per il suo popolo dall'oppressione cinese. Un gesto che riporta alla mente l'immagine dei monaci buddisti che, durante la guerra del Vietnam, si davano fuoco a Saigon per protestare contro la guerra. Lasciarsi morire con una determinazione e un distacco impressionanti. Azioni apparentemente contro se stessi ma che in realtà sono contro l'ingiustizia sociale e la mancanza di diritti nel mondo intero. Tutti suicidi rivoluzionari, simbolici, come a volere dire che la vita materiale è un nulla, un'inezia, di fronte alle idee, ai pensieri dell'umanità. Nulla da dire, insomma, tanto di cappello.
Ho fatto questi esempi per ricordare solo alcuni suicidi davvero straordinari, che, credo, abbiano fatto epoca e storia in ognuno di noi. Ma l'ho fatto solo, ritornando alle tante, anzi troppe, parole spese per commentare il gesto di Magri, per arrivare al cuore di ci
ò di cui, in realtà, voglio parlare. E cioè che ci vuole rispetto per tanti altri suicidi non meno gravi, significativi, emblematici. Forse è una cosa che sanno in pochi, ma oggi, in tutto il mondo, e anche nel paese dove viviamo, cioè qui in Italia, nel silenzio generale, nell'indifferenza assoluta di stampa e media di ogni tipo, esiste un malessere di vita molto più comune e generalizzato, legato al mondo del lavoro, che rischia di diventare un vero e proprio detonatore. I sociologi e gli psicologi più avvertiti ne parlano come di una sorta di moderna malattia di massa delle società avanzate. La crisi economica e finanziaria di questi ultimi anni ha reso ancor più preoccupante e grave questa condizione.
Si tratta del suicidio da lavoro. Il "normale" suicidio da lavoro, che purtroppo non fa mai notizia, e di cui non parlano mai i vari opinionisti e osservatori di turno,
è un fenomeno incredibilmente in crescita. Coinvolge tutti i ceti sociali e tutte le categorie lavorative, senza distinzioni. Detto così sembra, effettivamente, un'esagerazione. Bene, ecco qualche esempio, per rimanere solo ai casi più recenti e più incredibili, per modalità e motivazioni. Un dirigente della Gifas Electric di Lucca, da poco licenziato, prima uccide due suoi colleghi, perché non era riuscito a raggiungere i traguardi prefissati dai vertici dell'azienda, poi si spara nel bagno della ditta. Un giovane trentenne di Ragusa, appena licenziato da una catena di supermercati con l'accusa di aver cambiato cinque buoni sconto da 1 euro invece di utilizzarli direttamente, si suicida lasciando moglie e un bambino piccolo. Un imprenditore di una ditta di intonaci vicentina, che non riusciva più a pagare gli stipendi ai suoi venti dipendenti e l'amministratrice di una fabbrica di rivestimenti plastici a tecnologia avanzata, che aveva dovuto far ricorso alla cassa integrazione per tutti i suoi lavoratori, si tolgono la vita nell'indifferenza più totale delle rispettive comunità. Alcuni forse ricorderanno il caso dell'infermiera dell'ospedale San Paolo di Napoli, quella che si prelevava il sangue in quantità progressiva, fino a morirne, per protestare contro il mancato pagamento del suo stipendio. Ancor più grave, in questo caso, perché vittima suicida dell'inadempienza di un'istituzione pubblica. E ancora, il magazziniere di un mobilificio di Pordenone suicidatosi dopo aver saputo che non gli avrebbero rinnovato il contratto, o l'operaio della Fincantieri di Castellammare di Stabia licenziato in tronco e uccisosi davanti ai familiari. Molto di recente, un assistente di polizia penitenziaria di Battipaglia, a causa delle pressioni psicologiche inflittegli dai carcerati e dai suoi superiori, ha deciso di farla finita. Infine, ma l'elenco potrebbe continuare a lungo, un laureato con lode in filosofia a Palermo si è gettato dal settimo piano della facoltà di lettere: dopo il dottorato ormai conseguito in filosofia del linguaggio, il tutor gli aveva fatto intendere chiaramente che non aveva futuro dentro l'università perché i posti venivano assegnati solo ed esclusivamente per raccomandazione e non certo per merito. Il giovane ha lasciato un foglio con scritto "La libertà di pensare è anche la libertà di morire".
Ho riportato questi casi di comuni e normalissimi suicidi, se paragonati agli esempi dei nomi famosi, tanto celebrati, per riportare il dibattito, come meriterebbe, ad una maggiore seriet
à e onestà intellettuale da parte di tutti. Sono forse meno morti queste di quella di Magri? Vada pure che ci sia una scala di importanza per i diversi ambiti e settori della realtà lavorativa, dove conta solo chi ha soldi, chi è famoso, chi ha visibilità, ma che questa esista anche relativamente al togliersi la vita, mi pare un po' troppo. Si potrebbe dire, allora, riportando tutto meschinamente su una scala di confronti e di paragoni, che un suicidio di getto, d'impeto, magari eclatante, tipo dandosi fuoco o sparandosi alla tempia o in bocca, sia più dignitoso o valoroso di un suicidio assistito? Suvvia, non scherziamo. Una volta si diceva che la morte ci fa tutti uguali, ma evidentemente, nella società iper-mediatica non è nemmeno più così. Peraltro questo problema dei suicidi di massa nel mondo del lavoro, messi in atto da parte di gente comune, è un fenomeno globale, nel senso che riguarda tutto il mondo, e deve interrogarci tutti, nessuno escluso. Basti citare il caso della France Telecom, dove, negli ultimi due anni ci sono stati una cinquantina di dipendenti di diverso ordine e grado che si sono tolti la vita, per motivi vari, cioè per depressione, stress, clima lavorativo opprimente, competizione, fatica fisica e psicologica. Ma ce ne sono molti altri, in Usa, in Cina, un po' dappertutto. E c'è di più: la Mazda di Tokio, con una storica sentenza, è stata costretta a risarcire con milioni di euro i familiari di un giovane che si era suicidato per "eccesso di lavoro". Si è giunti ad un punto, così paradossale e allucinante, che, per tutelarsi da questo problema, una filiale della Apple a Shenzhen ha chiesto addirittura ai suoi lavoratori di sottoscrivere un contratto in cui si impegnano a non uccidersi in cambio di un aumento del 30% dello stipendio. Insomma, saremmo alla farsa, se non fosse, purtroppo, una questione drammaticamente seria.
Ecco allora, alla luce di quanto raccontato, non credete, cari opinionisti e tuttologi di turno, che sia pi
ù deontologicamente corretto stare in silenzio di fronte a certi drammi o eventualmente parlare del malessere e della condizione drammaticamente complicata di tanti giovani e meno giovani lavoratori in questa società post-moderna, che arrivano fino all'estremo atto di uccidersi, piuttosto che accanirsi a giudicare il motivo per cui Magri decida di essere lui solo, non lo stato, non i giudici, non la chiesa, e neppure la società o i suoi amici e parenti nel salotto di casa, ad avere il diritto di stabilire se continuare o no a vivere in questo mondo? 

Fonte: Linkiesta

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