Trent'anni fa, quando Comiso era la Val di Susa

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Fonte: Linkiesta

A Comiso erano arrivati, percorrendo una vecchia strada provinciale proveniente da Catania, nei modi più svariati: in macchina, in moto col sacco a pelo, sui pullman, perfino con l’autostop, sui camion degli autotrasportatori di primizie. Era estate, l’8 agosto 1983. Volevano opporsi all’installazione dei Cruise, impedire agli automezzi militari di portare i missili nucleari e alle impastatrici degli operai di entrare nell’area sorvegliata. La ragion di Stato, fino a quel momento, aveva vinto e il programma del governo, in accordo con gli Usa, era andato avanti.
Gente di tutte le et
à si era data appuntamento e si apprestava ad esprimere una protesta pacifica. Erano gruppi di pacifisti, giunti da ogni parte d’Italia, e anche d’Europa, per fare blocco davanti al cancello dell’aeroporto del Magliocco. Erano giovani e meno giovani: nuovi obiettori di coscienza, pacifisti storici, antifascisti che avevano fatto la Resistenza, ex sessantottini, autonomisti, antagonisti. C’erano pure molti bambini che osservavano con curiosità i poliziotti schierati a muro davanti al cancello e i pacifisti che si erano accovacciati a semicerchio per terra in duplice fila.
C’era il movimento delle donne: giovanissime, che portavano giacche indiane e la kefiah sopra le spalle, erano state loro a bloccare i camion, semplicemente infilandocisi sotto, fra ruota e ruota. E cos
ì i Cruise avevano dovuto aspettare, ancora. Alcune di loro avevano usato un modo davvero singolare e stravagante: erano arrivate al cancello della base militare con enormi gomitoli di lana ed avevano cominciato a fare il girotondo fra i poliziotti esterrefatti, svolgendo il filo finché cancello, poliziotti e ragazze non avevano finito per essere tutti avvolti in una “ragnatela” colorata, chiamata pace. Sul muro sovrastato dal filo spinato, dietro una lunghissima fila di eucalipti, quel giorno i pacifisti avevano appeso un enorme striscione di tela con la scritta: «Vogliamo vivere, vogliamo amare, diciamo no alla guerra nucleare!».
Si era giunti a quel giorno, dopo lunghe polemiche, dure contrapposizioni, infiniti discorsi. La Dc, il Psi di Craxi e i partiti laici minori (in particolare il Pri di Spadolini) si erano schierati compatti a difesa delle decisioni del governo. Il Pci locale, cos
ì come la federazione giovanile, aveva appoggiato senza distinguo la protesta anti-nucleare, ma dalla direzione nazionale era arrivato l’ordine di mantenere la calma e di non sbilanciarsi troppo. La stampa, i media, i palazzi della politica, avevano fatto notare ai cittadini di Comiso che l’arrivo degli americani (centinaia di famiglie che si spostavano per accompagnare i militari) avrebbe ravvivato tutta l’economia della zona. Insieme erano arrivati anche i timori per le speculazioni della criminalità organizzata.
In pochi, nelle istituzioni, presero le difese dei giovani pacifisti. Tra questi, il Presidente della Repubblica, Sandro Pertini, che gi
à qualche tempo prima, al Consiglio d’Europa a Strasburgo, si era espresso apertamente in favore di un disarmo totale, lo rimarcò nel consueto messaggio di fine anno del 1983. Berlinguer fece notare al governo che forse non era il caso di insistere vista la vicinanza con l’anniversario della bomba atomica sganciata su Hiroshima.
A dire il vero, in quel caso, la politica non ebbe n
é il tempo né la capacità di gestire la situazione e di anestetizzarla a suo modo. Si verificò, infatti, qualcosa di spontaneo, mai prima accaduto nella movimentata storia siciliana: era partita un’ondata di protesta che aveva presto superato lo stretto di Sicilia, per raggiungere le più importanti piazze d’Italia, valicando anche i confini nazionali. In pochissimo tempo si formarono dei Comitati per Comiso per impedire la realizzazione del progetto della Nato. Migliaia di persone nelle piazze a manifestare. A differenza del passato, il movimento di massa non fu gestito dai partiti, né dai sindacati, ma rimase una spontanea forma di mobilitazione in cui si trovarono uniti gruppi ecologici indipendenti, associazioni di cittadini, comunità religiose, classi scolastiche, contadini, commercianti, semplici cittadini.
Quel giorno, schierati a difesa degli operai che dovevano costruire la base missilistica, c’era una folta schiera di poliziotti e carabinieri, fatti partire di prima mattina dalle caserme della vicina Ragusa e di Catania. Erano giovani anch’essi, e stavano schierati in piedi, nelle loro divise cachi e azzurre, davanti al cancello, a fronteggiare i giovani pacifisti accovacciati per terra. Era una situazione simile a quelle che Pasolini aveva gi
à descritto molti anni prima nei suoi pungenti articoli sul Sessantotto, sui borghesi, studenti e poliziotti.
Mentre la manifestazione si svolgeva assolutamente in modo pacifico, ad un certo punto accadde qualcosa di imponderabile. I giovani lanciavano improperi e accuse ai politici e alcuni agenti, impauriti dall’aggressivit
à verbale, presero l’iniziativa e li caricarono alle spalle. I militari davanti al cancello, anche loro, si avventarono contro gli altri ragazzi, che non ebbero neppure il tempo di alzarsi. Per paura della reazione, gli agenti caricarono, sopra le teste e le braccia dei ragazzi, chiusi là in mezzo. Prima si sentirono urla e lamenti, poi un grande polverone si levò dalla terra. Alcuni riuscirono ad alzarsi e a scappare dai lati verso i campi. Altri agenti, presi alla sprovvista da alcuni giovani che avevano risposto alla carica, iniziarono a sparare i lacrimogeni. Altri ancora inseguirono i ragazzi e le ragazze che scappavano, coinvolgendo negli scontri anche medici e infermieri, preti, giornalisti e fotografi, che avevano cercato, inutilmente, di far tornare la calma. Alla fine della giornata si contarono 18 fermati e circa un centinaio di feriti e contusi, di cui 4 molto gravi.
Subito gli italiani solidarizzarono con il movimento. Il Pci, come accadde in tutte le pi
ù importanti battaglie sui diritti, seguì a ruota la società civile. Poi vennero Chernobyl e il referendum vinto contro il nucleare civile. La vicenda si concluse, dopo la caduta del muro di Berlino e la fine della contrapposizione dei blocchi Usa-Urss, con la smilitarizzazione dell’area dell’aeroporto di Comiso e con la vittoria dei gruppi pacifisti.
In Val di Susa, il 25 febbraio 2012, c’
è stato un corteo variegato e pacifico. La giornata di mobilitazione contro la Tav, cioè la linea dell’Alta Velocità Torino-Lione, ha visto protagonisti diverse realtà sociali provenienti da tutta Italia, dai gruppi locali ai centri sociali, dalle associazioni ambientaliste ai movimenti per l’acqua pubblica, dai collettivi studenteschi alla Fiom, da alcuni partiti di sinistra a semplici cittadini, tantissime donne, vecchi, bambini e stranieri.
Le ragioni della protesta sono, in sintesi, il devastante impatto ambientale, gli alti costi dell’opera, la mancanza di dialogo con le popolazioni locali da parte dei governi e delle forze di maggioranza in parlamento. Cori, slogan e musica caratterizzano il corteo composto da migliaia di persone, con in testa i familiari degli attivisti arrestati in precedenza per alcuni scontri con la polizia. Nei giorni scorsi, com’
è accaduto già in altre occasioni passate, per esempio nel luglio 2011, alcuni gruppi isolati di violenti hanno cominciato a lanciare pietre e petardi e a ingaggiare scontri con le forze dell’ordine, che hanno risposto con cariche ed uso di gas lacrimogeni.
A prima vista, si tratta di due situazioni che potrebbero apparire molto diverse, quella di Comiso e della Val di Susa, eppure non lo sono affatto. La partita che si gioca tra popolazioni locali e ragion di Stato
è la stessa.

Fonte: Linkiesta

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Obiezione e aborto: storie di un paese incivile

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Fonte: Internet

Nell'autunno del 1957 il corpo di una ragazza di diciassette anni veniva adagiato su un tavolo anatomico, nella penombra di una stanza dell'Istituto di Medicina Legale dell'Università di Palermo. La giovane, in fin di vita, era stata trasportata dal suo piccolo paese nell'interno siciliano in un disperato tentativo di salvarla, ma era morta lungo la strada provinciale. Intorno al suo corpo, ormai cadavere, i medici cercavano di svelare il segreto di quella morte improvvisa. Unici indizi visibili due grandi cerotti applicati all'altezza dei reni, di quelli usati contro il mal di schiena, e i segni di una serie di ipodermoclisi sugli avambracci, a seguito di un lavaggio del sangue. L'autopsia accertò subito che da tre mesi la giovane era incinta, ma soprattutto che era morta avvelenata, perché nel suo corpo erano state rinvenute tracce di segala, un'erba che nei paesi di campagna veniva usata per interrompere le gravidanze. Solo dopo qualche tempo il caso venne denunciato all'autorità giudiziaria. Le indagini iniziarono a far luce sulla vicenda: la ragazza era fidanzata con un cugino di qualche anno più grande; quando questi capì che la cugina aspettava un bambino, consultò una vecchia "mammana" che, per tremila lire, gli procurò un mazzetto di erbe secche. La giovane, seguendo i consigli del fidanzato, iniziò ad applicare le erbe e a bere l'intruglio, un po' al giorno, ma dopo poco cominciò a star male, a vomitare e ad avvertire atroci dolori al ventre e ai reni. I genitori, ignari di tutto, dopo aver provato una cura casalinga con dei cerotti, si resero conto che il dolore della figlia peggiorava e chiamarono il medico di famiglia. Questi, pensando a una forma di avvelenamento, ma ignorando che la ragazza continuasse a bere il decotto, eseguì il lavaggio del sangue. La decisione del ricovero in ospedale avvenne quando ormai era troppo tardi.

La storia raccontata è solo una delle tante di aborto clandestino procurato degli anni precedenti all'approvazione della legge 194, e delle pochissime rese pubbliche grazie alla prima inchiesta di Milla Pastorino uscita su "Noi donne" nel 1961.
Nel 1978, in ritardo rispetto agli altri paesi europei pi
ù avanzati, giunse la legge. A distanza di più di trent'anni, una relazione del Ministero della Salute sullo stato di attuazione della legge contenente le norme per la tutela sociale della maternità e per l'interruzione volontaria della gravidanza, riconosce una diminuzione del 50% (115 mila casi) rispetto al 1982, anno in cui fu registrato il più alto ricorso all'aborto, con ben 234 mila casi. Qualche giorno dopo l'approvazione di quella discussa legge, gli "indipendenti di sinistra", che avevano contribuito attivamente all'approdo finale, sostennero che il numero troppo elevato di richieste di obiezione di coscienza da parte dei medici si sarebbe potuto trasformare in un "vero e proprio boicottaggio della legge". A loro avviso, andava puntualizzato che non avrebbe potuto fare obiezione di coscienza chi non partecipava direttamente all'aborto e che gli stessi obiettori avrebbero dovuto svolgere tutte le attività che non riguardavano l'intervento abortivo in senso stretto.
Le prime luci del giorno penetrano nella stanza di un ospedale romano dove una giovane donna
è in lacrime nel suo letto. Si trova lì ormai da due giorni per subire un intervento abortivo. Siamo nel Duemila, già inoltrato da un bel po'. La vita che porta in grembo da più di venti settimane è affetta da una gravissima malformazione al cervello, tutti gli specialisti consultati le hanno sconsigliato di portare a termine la gravidanza. La procedura di induzione consiste nell’introduzione nell’utero di alcune "candelette" di prostaglandina per stimolare le contrazioni del travaglio. Fino alla dodicesima settimana l’interruzione di gravidanza avviene tramite raschiamento, ma dopo il feto è troppo grande ed è necessario un vero e proprio travaglio di parto. L'attesa della donna si è protratta tantissimo perché il giorno del ricovero erano di turno solo medici obiettori di coscienza. E tutti si sono rifiutati puntualmente di avviare la procedura. Alla donna non è rimasto che piangere ed attendere che iniziasse il turno di un medico non obiettore.
Questo
è solo uno dei tantissimi casi di donne, documentato da una inchiesta di Cinzia Sciuto pubblicata su "D" di Repubblica, che, nonostante la legge lo stabilisca, hanno dovuto attendere moltissimo tempo prima di poter effettuare l'interruzione di gravidanza.
Quello dell'aborto sta diventando sempre pi
ù, proprio come alcuni avevano previsto nei giorni appena successivi all'approvazione della 194, un vero e proprio percorso ad ostacoli. I dati parlano chiaro: i ginecologi obiettori di coscienza sono passati dal 58% del 1994 al 69% del 2006 fino al 70,7% del 2009; gli anestesisti obiettori sono passati dal 45% del 2003 al 51,7% del 2009; il personale non medico obiettore è passato dal 38% del 1994 al 44,4% del 2009. Va ricordato che percentuali di obiezione superiori all’80% tra i ginecologi si osservano in Basilicata, in Campania, in Molise e in Sicilia. Non esiste, inoltre, un elenco dei medici non obiettori. Secondo una indagine empirica fatta da un'associazione di volontari, risulta che i ginecologi non obiettori strutturati dentro gli ospedali italiani sarebbero circa 150, molti dei quali in età avanzata, che presto andranno in pensione. Di recente, alla luce di questi dati, qualcuno ha ritenuto che l'obiezione di coscienza all'aborto per i medici andrebbe addirittura vietata. E' evidente che oggi, chi decide di fare il ginecologo, sa che l’interruzione di gravidanza è un diritto sancito dalla legge, e che rientra nei suoi obblighi professionali. Gli ospedali non dovrebbero trincerarsi dietro la scusa di non avere medici disponibili a effettuare le interruzioni di gravidanza perché si tratta di un servizio che deve obbligatoriamente essere fornito, come previsto dall’articolo 9 della legge 194. E' anche vero che non si può obbligare chi obietta, per cui andrebbe semplicemente bilanciato meglio, prevedendo procedure specifiche, il rapporto tra medici obiettori e non.
Nella riflessione di un medico che non ha obiettato, Giovanni Fattorini, si coglie la particolarit
à di un paese come il nostro, in cui chi fa coraggiosamente il proprio dovere rischia perfino di essere malvisto: “Siamo stati in pochi, in questi anni, ad occuparcene nel concreto. All'inizio, quasi con titubanza, poco incoraggiati quando non malvisti da entrambe le parti: colpevoli “abortisti” per gli uni, poco difesi, quasi “imbarazzanti” per gli altri. Noi abbiamo continuato a incontrare centinaia di donne, ma anche uomini e bambini, quelli nati e quelli che non sono nati. In molti ci hanno rimesso la carriera, mente altri l'hanno fatta perché schierati “correttamente”. Certificare frettolosamente è facile, ragionare ed entrare in relazione con la singola donna, invece, è molto complicato. Operare nel concreto di ogni situazione, unica ed irripetibile, è difficile. Lo abbiamo fatto senza sentirci eroi, ma medici che hanno a cuore il proprio dovere: quello verso ogni persona e verso la propria comunità civile. Lo abbiamo fatto in condizioni ospedaliere proibitive.”
In un paese civile non si tratterebbe di eroismo ma di normalit
à. Le donne che richiedono l'applicazione della 194 non esercitano un diritto, ma subiscono una necessità, e gli ospedali, i medici, i concittadini, la chiesa e lo stato, dovrebbero trattarle con dignità e rispetto. Questo, almeno, in un paese civile.

Fonte: Cronache laiche

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Se la sinistra entra in pista senza automobile

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Fonte: Qualcosa di Sinistra

E’ ormai risaputo, del tutto assodato, che l’Italia delle istituzioni pubbliche, così come la sua classe politica, è completamente delegittimata. E allora che si fa? chiederete voi. Che succederà quando questo governo tecnico terminerà il suo compito e sarà ridata la parola agli elettori?
La soluzione prospettata dai principali partiti, cio
è la riforma del meccanismo di elezione che modifica i criteri (mescolando proporzionale e maggioritario a seconda delle convenienze del momento) e mantiene la scelta dei candidati alle segreterie, non ci piace per nulla.
Non ci piace neppure, peraltro, l’idea che passa in molti ambienti della cosiddetta anti-politica, cio
è l’eliminazione dei partiti, la partecipazione diretta dei cittadini alla politica non si sa bene poi con quali criteri, il respingimento delle candidature sulla base di fedine penali o esperienze politiche passate, come se bastasse l’aver fatto, anche bene, il consigliere comunale o l’assessore in una giunta per macchiarsi in eterno di una specie di colpa primigenia.
No, la questione posta in questo modo
è astratta: in una democrazia parlamentare, sono sempre e comunque le forze politiche, che piaccia o meno, i soggetti che agiscono e prendono le decisioni. Occorre assolutamente riformarli, dunque, anche stravolgerli nella loro struttura, per cambiare le istituzioni nel profondo.
Si illude, infatti, chi ritiene l’attuale Pdl logoro, il Terzo Polo inconsistente, il Pd disorientato. Apparentemente
è proprio così, ma in realtà questi partiti hanno dimostrato di avere risorse inesauribili, a volte con accordi sottobanco, altre volte perfino alla luce del sole, per superare indenni qualsiasi crisi. Andreottianamente, verrebbe da dire. Di certo, non sembrano capaci di saper mobilitare gli elettori e di compiere quelle riforme di cui parlano, viene ormai da dubitare quanto sinceramente, da anni. Però, è pur sempre vero che questi partiti, insieme, raggiungono circa la metà dei voti degli elettori, checché ne pensi l’antipolitica.
Il discredito in cui essi versano, oggettivamente,
è davvero tanto. Non è, peraltro, una novità. Capitò qualcosa di simile dopo Tangentopoli: Dc, Psi e partiti minori furono spazzati via, l’ex Pci poi Pds si salvò per il rotto della cuffia, ma, timido, informe, indeciso, non seppe mettere in piedi quella alternativa di riformismo militante che sarebbe servita per cambiare fin dalle fondamenta il paese. Poi venne Berlusconi, il resto lo conosciamo.
Che fare, dunque?
Il vero problema della crisi politica italiana (ma anche di quella economica e sociale)
è la mancanza di forze politiche nuove. Senza questa condizione, è bene dirlo subito a scanso di equivoci, non ci sarà alcun reale rinnovamento, lo stato italiano continuerà, più o meno inesorabilmente, il suo declino, fino ad arrivare ai livelli più bassi tra le cosiddette democrazie, non solo europee, su tutti i fronti: Pil, lavoro, ricerca e sviluppo “umano”, diritti.
Ci sovviene in aiuto la storia. Di fronte al sommovimento radicale dovuto a Tangentopoli, non spunt
ò come un fungo solo Berlusconi, ma ci furono anche altri fenomeni: il tentato rinnovamento del Pri, la nascita della Rete di Orlando, Dalla Chiesa e Novelli, i sindaci della sinistra critica, la stessa Lega Nord, che comunque esprimeva una reale voglia di cambiamento, sebbene eterogenea e ambigua. Proprio come accade oggi, con il movimento Cinque stelle, con Sinistra ecologia e libertà, con la rete dei sindaci Pisapia e De Magistris, e con altri gruppi più o meno visibili.
A questo quadro ricco ma molto vario, vanno aggiunti gruppi di intellettuali, associazioni, riviste, movimenti, una vasta area di operatori e soggetti sociali, per usare un termine per la verit
à un po’ abusato, la cosiddetta “società civile”, tutta gente non iscritta ad alcun partito, che vorrebbe costituire una nuova politica. Soggetti caratterizzati da un bisogno di rappresentatività in parlamento, che fino ad oggi non si è mai potuto realizzare, sia per colpa delle tradizionali forze politiche, sia per colpa del proprio velleitarismo, della propria conflittualità. Ma anche da un bisogno di moralità, di pulizia, di “buona politica”, che si è espresso in più occasioni, idealmente nei movimenti di piazza, con studenti, lavoratori, pensionati, donne (si pensi alla imponente manifestazione del “Se non ora quando”), e più concretamente, nei referendum autogestiti sui beni pubblici (che non a caso ha ricordato, storicamente, la mobilitazione atipica sul referendum contro il nucleare militare e poi civile degli anni ottanta, con i partiti a ruota della società), con un risultato a tal punto imprevedibile, quasi stupefacente, da rompere completamente i vecchi e usurati schemi politici, anche con l’aiuto di una risorsa nuova, insperata, e quanto mai democratica, come i social network.
Finora i partiti tradizionali hanno dormito sonni abbastanza tranquilli perch
é queste forze si sono mosse in modo sfilacciato, disarticolato, eterogeneo. Ma l’esistenza di fili conduttori, aspirazioni e ideali che li uniscono, in particolare temi come la critica al neo-liberismo, la lotta alla corruzione, la battaglia contro la criminalità, la difesa dei beni comuni e dell’ambiente, rappresenta la base per la costruzione di una nuova forza politica capace di interpretare correttamente le richieste e di seguire le dinamiche di una società moderna e globale completamente mutata rispetto al passato.
In una nuova situazione di transizione politica come l’attuale, questi soggetti, che sono la parte indubbiamente pi
ù viva e dinamica della società italiana, sottopongono quotidianamente a una critica impietosa la forma-partito, uno strumento giudicato ormai non più intoccabile. In tal senso, l’unico modo che il partito avrebbe per salvarsi dal naufragio e per rimanere in vita, è quello di evitare di chiudersi nella solita funzione decisionale burocratica e di vertice (a questo proposito dovrebbe far pensare il fatto che, nei vari appuntamenti delle primarie, da Vendola a De Magistris da Pisapia a Zedda, fino al recente Doria, venga sempre premiato il candidato che non è espressione diretta del partito), e di aprirsi al microcosmo delle diversità che pullulano nel sociale, interloquendo con esso a partire dai problemi del lavoro, della scuola, dell’ambiente, dell’immigrazione, della pace.
Lo si
è visto nella parabola del Pd, che pure inizialmente era stato accolto in modo entusiasta dall’elettorato del centro-sinistra: un patrimonio di speranze è stato sprecato incredibilmente e la colpa ricade, senza scusanti, nell’attuale dirigenza, che dovrebbe quantomeno fare autocritica, cospargersi la testa di cenere, e aprirsi finalmente all’esterno. Anzi, per dirla alla Moretti, dovrebbe aprire le porte a tutti, ai giovani, alle donne, ai lavoratori, ai movimenti, e dire “venite, venite nel partito, prendetelo!”.
Nel Pd, infatti, storie troppo diverse, pregiudizi, interessi immediati contrastanti, gruppi di potere non disponibili a lasciarsi liquidare, hanno condizionato e condizionano tuttora fortemente le nuove leve, ed i risultati sono oggi sotto gli occhi di tutti: disorientamento assoluto dell’elettorato abituale, vento dell’antipolitica.
E’ bene anche dire, per correttezza, che il quadro del rinnovamento sarebbe incompleto se non si aggiungesse quella minoritaria parte di mondo racchiuso nei partiti tradizionali, che pure spinge, timidamente, in direzione del cambiamento. Ci sono pezzi e soggetti costruttivi anche dentro ai partiti tradizionali,
è evidente. Se anziché parlare di Pdl si parlasse di elettorato di centro-destra, se anziché dire Terzo Polo si dicesse elettore moderato, se anziché scrivere Pd si intendesse centro-sinistra, se invece di Chiesa ci si riferisse al mondo cattolico della base, si capisce bene come in queste realtà esistano forze vere e sincere, schierate contro la degenerazione e la corruzione, con le quali poter costruire una politica nuova.
Va assolutamente evitato di riproporre meccanismi e dinamiche vecchie, destinate alla sconfitta, foriere solamente di illusioni. Il popolo del centro-sinistra ne ha subite fin troppe, fin dal lontano ’48: negli anni sessanta la divisione tra Pci e Psi scavata dal centro-sinistra, negli anni settanta quella dovuta al compromesso storico, negli anni ottanta il craxismo, negli anni novanta i contrasti dell’Ulivo, infine, l’indeterminatezza del Pd.
E’ giunto il momento che le forze vitali della societ
à mettano da parte divisioni e rancori, che i pochi settori vivi dentro i partiti della sinistra si uniscano per dar vita ad una forza politica di sinistra completamente nuova, che selezioni, in modo partecipato e democratico, sulla base delle competenze professionali, la propria giovane classe dirigente, capace di parlare un linguaggio moderno, dinamico ma carico di contenuti e non ignaro del ruolo fondamentale della memoria storica. La storia recente dimostra che costruire un calderone vuoto, un partito liquido senza spina dorsale, senza riferimenti culturali precisi, è stato dannosissimo. Parlare di alleanze, di primarie, di candidato premier e di programma politico, allo stato attuale, è del tutto inutile. Sarebbe, semplicemente, come entrare in pista senza automobile.

Fonte: Qualcosa di Sinistra

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Divorzio breve: l'Italia dei diritti si avvicina all'Europa

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Fonte: Internet

È ripreso l’iter per il “divorzio breve”. Monti, come fecero già Moro e Andreotti su divorzio e aborto, eviterà di prendere posizione, rendendo possibili maggioranze trasversali. La legge attuale infatti prevede 3 anni di separazione prima della possibilità di divorziare.
La storia delle modifiche non ha avuto vita facile. Nel 2003 la deputata Ds Montecchi firm
ò la prima proposta, prevedendo una riduzione dei tempi per le coppie senza figli e disposte a presentare una richiesta consensuale. Dopo l’accordo in commissione, tutto finì con un nulla di fatto: la Chiesa e i cattolici intransigenti, nonché gli avvocati, svolsero una efficace azione di contrasto e rimandarono la discussione. In aula fu approvato con voto segreto un emendamento di Lega e Udc che cancellava la sostanza di quel disegno di legge. Rutelli, un tempo sostenitore radicale della legge sul divorzio, dichiarò solennemente: «Nell’agenda delle priorità italiane il divorzio breve è al cinquecentesimo posto». Oggi il Pd vuole abbassare la soglia ad un anno, in tutti i casi. Il Pdl sarebbe d’accordo all’abbassamento ma solo in assenza di figli minorenni. I “guastafeste” i radicali vorrebbero il divorzio “lampo”, cioè senza attese. L’Udc appoggerebbe una riduzione dei tempi ma solo fino a 2 anni, mantenendoli a 3 in presenza di minori.
Il punto
è che il “limbo” che passa tra la separazione e il divorzio non serve da pausa di riflessione, come era nelle intenzioni del legislatore più di quarant’anni fa, ma diventa un periodo di alta conflittualità tra i coniugi, nonché di sofferenze per i figli. Molte coppie si rivolgono alla Sacra Rota, il tribunale ecclesiastico che permette di dichiarare “nullo” il matrimonio religioso, con un giro d’affari non indifferente e con cause fuori tariffa. Altre finiscono ad affittare appartamenti all’estero, per avere una residenza momentanea e ottenere così il divorzio (che lo Stato italiano si limita a trascrivere).
Ma in Italia siamo sempre stati un passo indietro. Mentre negli Stati Uniti, in Inghilterra o in Francia, il divorzio esisteva da secoli, qui da noi, ancora negli anni Cinquanta, si inventava il “piccolo divorzio”: un disegno di legge che limitava la possibilit
à di divorzio a casi particolarmente drammatici, se uno dei coniugi fosse un serial killer, o un malato di mente, o semplicemente stesse in carcere da decenni per tentato omicidio o, al limite, dopo una separazione per più di quindici anni. Ovviamente non se ne fece nulla, e si dovette aspettare il 1970 con la legge Fortuna-Baslini e il referendum del 1974 per veder sancita una conquista civile che altrove era già data per acquisita.
Si potrebbe ricordare che in Inghilterra, alla met
à degli anni Sessanta, si ebbe una svolta nell’opinione pubblica, quando un autorevole commissione creata dall’arcivescovo di Canterbury sostenne, senza alcuno scandalo pubblico, la necessità di riformare radicalmente le leggi esistenti, introducendo il principio del fallimento o del disfacimento della comunione di vita familiare come unica causa del divorzio. In Italia sarebbero parsi dei marziani, e invece, secondo questa commissione, la società non aveva alcun interesse a far sopravvivere l’involucro giuridico del matrimonio, quando al suo interno questa comunione fosse venuta meno. Doveva, invece, fare tutto il possibile perché lo scioglimento di questo vincolo non comportasse alti costi umani, ma avvenisse con il minimo di sacrificio e di tempi. Appunto, di tempi.
In Svezia la richiesta di divorzio viene automaticamente e immediatamente accettata se a presentarla sono entrambi i coniugi; se uno dei due si oppone ci vogliono al massimo 6 mesi. Tempi minori rispetto a noi ci sono un po’ ovunque in Europa (tranne che in Irlanda, in Polonia e in qualche stato minore): da pochi mesi al massimo a 2 anni in Francia, in Svezia, in Olanda, in Inghilterra, in Germania. Il “divorzio espresso”
è stato introdotto, nel 2005, in Spagna, con la possibilità di divorziare unilateralmente, senza alcun motivo e in modo immediato. In Brasile, di recente, si può richiedere il divorzio dopo due anni di provata separazione coniugale, senza la necessità di dover passare dal tribunale, e con effetti immediati qualora i coniugi siano in accordo fra loro o non abbiano figli minorenni.
È avvenuta, negli ultimi decenni, una rivoluzione silenziosa nella vita di coppia degli italiani: il numero dei divorzi è cresciuto, quello dei matrimoni è diminuito, determinando grandi cambiamenti sociali: la diffusione delle convivenze prematrimoniali, la moltiplicazione di nuovi tipi di famiglie, nucleari incomplete e ricostituite. Questo processo ha messo in moto dinamiche di mobilità sociale un tempo impensabili, ma ha anche creato nuove povertà. Ci ha avvicinato, in ogni caso, a tutti gli altri paesi industrializzati occidentali.
Secondo i pi
ù recenti dati dell’Istat, nel 2009, le separazioni in Italia sono state 86mila e i divorzi 54mila. I due fenomeni sono in costante crescita: se nel 1995, ogni mille matrimoni si sono registrati 158 separazioni e 80 divorzi, nel 2009 sono passati a 297 separazioni e 181 divorzi. Per dare l’idea dell’aumento, si pensi che, nel 1978 (a 8 anni dalla legge e a 4 dal referendum), i divorzi erano appena 12mila e le separazioni solo 34mila. Sempre nel 2009, inoltre, i matrimoni religiosi sono stati 145 mila, quelli civili 85 mila, cioè il 64% contro il 36%, per un totale di 230 mila. Si ricordi che nel 1972, cioè appena 2 anni dopo la legge, i matrimoni in totale erano 415 mila, di cui solo il 7,3% celebrati con rito civile.
L’et
à media degli italiani che arrivano alla separazione è di circa 45 anni per i mariti e 41 per le mogli; in caso di divorzio si passa, rispettivamente, a 47 e 43 anni. Qui le differenze con gli altri paesi si fanno considerevoli: già nel 1977, nei maggiori paesi del Nord-Europa e negli Stati Uniti, l’età media al divorzio era per gli uomini di 35-36 anni, per le donne di 32-33 anni, e nei decenni successivi le medie, in questi paesi, si sono ulteriormente abbassate. Le nostre trasformazioni del diritto di famiglia e delle leggi sul divorzio sono avvenute in un arco di tempo più breve, i cambiamenti maggiori da noi si sono concentrati in un ventennio a fronte di cambiamenti che negli altri paesi sono avvenuti in un secolo circa. Per questo da noi certi comportamenti hanno agito meno in profondità nella popolazione.
In Italia
è presente inoltre una peculiarità (comune solo a qualche paese dell’America Latina): esistono sia la separazione che il divorzio. Nel senso che prima ci si separa e poi si divorzia, mentre altrove o la separazione non esiste, come in Finlandia, in Svezia o in Austria, oppure, come accade in Francia, Germania e Spagna, la separazione esiste ma non costituisce condizione essenziale per chiedere il divorzio, per cui è sufficiente la separazione di fatto per un certo periodo di tempo. Questo ha, fondamentalmente, allungato i tempi.
Chi vuole il divorzio deve quindi attendere due sentenze dei tribunali. Per colpa dell’inefficienza dell’apparato della giustizia italiana (secondo un recente rapporto europeo, per le procedure di primo grado da noi occorrono 634 giorni, il doppio di Germania, Francia e anche Portogallo), in particolare nel Sud d’Italia, i tempi si allungano ulteriormente e le spese aumentano. Molti dei coniugi, infatti, si arrestano a questo punto. Chi va avanti, trascorso questo periodo, deve comunque ritornare dall’avvocato e andare ancora in tribunale. Di solito, stando agli studi dei sociologi, va avanti chi occupa una posizione pi
ù alta nella piramide sociale: quanto più è alto il titolo di studio o il ruolo sociale, con tutte le sue relazioni e i legami, tanto più breve il periodo che passa tra la richiesta e la sentenza di divorzio. Un altro luogo comune da sfatare è la tesi che il divorzio sia un fattore di ascesa sociale per le donne. Gli studi dimostrano che non è affatto così e che chi diventa più povero, dopo un divorzio, è quasi sempre la donna. Quindi la scelta del divorzio, e la necessità di avere tempi adeguati per sancirlo, è una necessità improrogabile.
Psicologicamente, inoltre, non va sottovalutato un aspetto: il divorzio
è un momento di forte difficoltà nella vita di una persona. Uno Stato civile dovrebbe aiutarla e non prolungarne l’agonia. La grande maggioranza dei coniugi che divorziano si sono sposati in Chiesa con una cerimonia solenne. Ma anche quando il matrimonio si è celebrato in comune con rito civile, esso è accompagnato dallo stesso rito sociale: alla presenza di testimoni, ma spesso anche di genitori, parenti, amici, i due sposi si scambiano gli anelli, mentre i fotografi scattano centinaia di foto, e la cerimonia è seguita da feste e pranzi. In modo del tutto diverso ha luogo il divorzio. Pur essendo un passaggio altrettanto cruciale nella vita di una persona, esso non è accompagnato da alcun rito significativo, anzi è un evento “nascosto”, senza parenti, ma davanti a giudice ed avvocati, in una stanza sulla cui porta è appeso l’elenco con i nomi di tutte le ex coppie, per compiere un atto che dura pochi minuti, al termine del quale i protagonisti se ne vanno ognuno per la sua strada.
Negli ultimi tempi le famiglie ricostituite sono cresciute moltissimo anche in Italia. Negli altri paesi non
è una novità, basti pensare che in Inghilterra e in Francia, la quota delle seconde nozze raggiunse, già nel Cinquecento e nel Seicento, le punte del 25-30% dei matrimoni. Per non parlare della fitta letteratura straniera sui cosiddetti “matrimoni di prova”, famosi già nel Settecento e Ottocento, basti pensare alle Affinità elettive di Goethe, in cui i protagonisti discutevano amabilmente di prove e di esperimenti coniugali e della necessità di assumere “informazioni reciproche”. Nel Novecento poi ne discussero fior di intellettuali e filosofi, per esempio Bertrand Russell. Si tratta, ovviamente, di situazioni molto diverse dall’oggi, che però danno bene l’idea del dell’apertura mentale presente in altri paesi, anche in epoche remote. Ma non è stata sempre e solo una prerogativa degli stranieri. A proposito della necessità di ricorrere al divorzio, in un libro che risale addirittura ai primi dell’Ottocento, Melchiorre Gioia scrisse che «Mostrare sollecitudine all’amore a chi mortalmente annoja, vivere per molto tempo sotto l’autorità di uno sposo che si disprezza nel fondo dell’animo, è uno stato orribile». E, alla fine dell’Ottocento, Heinrich Heine avanzò qualche dubbio sul matrimonio, rincarando la dose: «Chiunque si sposi è come il Doge che si congiunge in matrimonio con il Mar Adriatico, non sa quel che c’è dentro: tesori, perle, mostri, tempeste sconosciute».
Se
è vera la vecchia tesi della sociologa Jessie Bernard, secondo cui in ogni unione coniugale ci sarebbero almeno due matrimoni, quello del marito, che influirebbe su di lui sempre positivamente, e quello della moglie, che avrebbe, invece, quasi sempre un’azione negativa e dannosa su di lei, allora l’approvazione del “divorzio breve” permetterebbe, quantomeno all’uomo, di dare un tocco di positività in più alla sua vita, eventualmente, risposandosi con un’altra donna.

Fonte: Linkiesta

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Neve, inefficienza e corruzione: è il 1956 o e oggi?


Roma_1956
Fonte: Internet

Non c’è troppo da meravigliarsi del malcostume e inefficienza che monopolizzano in questi giorni le cronache italiane. Quando si sente ripetere il solito luogo comune, quella specie di chiacchiera da bar, per cui l’Italia «è sempre stata così», e per cui noi siamo sempre stati «un paese allo sbando», forse chi lo dice non ha poi tutti i torti. Ripensando alla neve di questi giorni, basta andare indietro nel tempo. E così si arriva alla famosa nevicata del ’56. Quella ricordata in una canzone scritta da Califano e cantata al festival di Sanremo da Mia Martini.

Un po’ per curiosit
à, un po’ per malizia siamo andati avanti a sfogliare i giornali dell’epoca. Era il febbraio del ’56. Fu, per il nostro paese, la più grande nevicata del secolo. Un’ondata di freddo siberiano portò gelo e neve ovunque. Le temperature delle nostre città, dal nord al sud (addirittura fino a Lampedusa e Pantelleria), raggiunsero dai -20 gradi di Bergamo al -1 di Palermo. Piazza San Pietro si trasformò in una pista da sci. Il freddo glaciale durò più di 20 giorni. Per dare meglio l’idea di cosa accadde, basta riportare qualche passo tratto direttamente da un quotidiano:
Masse d’aria glaciale hanno portato la neve nella penisola. Il primato del freddo in Val Venosta con meno 28. Treni bloccati, gravi ritardi e disagi per i passeggeri. Tutti i corsi d’ acqua che scendono dalle vallate sono gelati. A rendere maggiormente fredda la temperatura contribuisce il vento che da oltre 36 ore soffia foltissimo. Lo strato di ghiaccio formatosi sulle strade ha causato incidenti a raffica. A Livorno il freddo intenso ha presso che interrotto l’attività nel porto. Il Vesuvio sino a quota 350 è ammantato di neve. Sono interrotte le comunicazioni stradali sulla Sila. Numerosi canali di bonifica sono gelati. In alcune zone della città si raggiungono i 12 cm di accumulo. Il traffico impazzisce e alla fine della giornata sono tantissimi gli incidenti causati dalla neve. Chiuse le scuole. Si lamentano sei morti per assideramento.
Sulla neve, il paragone oggi è presto fatto, sul resto, invece, che viene il bello. Altro che foto di Vasto, con Di Pietro e Vendola che tirano per la giacca Bersani. Altro che scandalo Lusi che fa tremare l’ex Rutelli e tutto il Pd. Nel ‘56 la sinistra viveva una delle più grandi spaccature della sua storia, a seguito delle denunce di Chruščёv contro lo stalinismo al XX congresso del Partito comunista sovietico e, soprattutto, dopo l’insurrezione degli ungheresi di Nagy contro i sovietici. Mentre i socialisti di Nenni approvavano un documento che definiva l’intervento dell’Urss in Ungheria un atto incompatibile col diritto dei popoli all’indipendenza e 101 intellettuali comunisti firmavano un manifesto che condannava l’intervento e lasciavano il Pci, Togliatti su Nuovi Argomenti rinnovava la fiducia al modello del Pcus, mentre l’Unità e la direzione comunista definivano gli insorti ungheresi come dei controrivoluzionari traditori. Insomma, cambiano i fatti, cambiano i nomi, ma nella sinistra, lo scontro tra riformisti e radicali è sempre stato di moda, ed ha sempre suscitato profonde emozioni nella base del suo elettorato.
Anche la Cina, cos
ì come accade oggi sulle questioni economico-finanziarie del mondo globale, pure allora era al centro dei riflettori del mondo: Mao Tse-Tung, proprio in un solenne discorso del 2 maggio del ’56, si lanciava, con la cosiddetta liberalizzazione culturale dei “cento fiori”, alla conquista, si fa per dire, dell’Occidente. Israele, che di recente ha minacciato di voler attaccare l’Iran con le sue testate nucleari, il 29 ottobre del ’56, inviava le sue truppe ad occupare il monte Sinai in Egitto. Ma non a parole, le inviava sul serio, provocando l’intervento dell’Onu (che anche allora, peraltro, servì a poco).
Intanto, sempre nel gelido febbraio del ’56, con l’intento di una campagna moralizzatrice e a difesa della laicit
à e dei diritti civili di tutti i cittadini italiani, da una costola del partito liberale, nasceva, nel corso di un improvvisato convegno romano, il partito radicale di Ernesto Rossi, Leo Valiani, Leopoldo Piccardi, Eugenio Scalfari e altri. Da allora seguirono grandi battaglie e ideali. Pinzillacchere, direbbe Totò, a confronto di quelle dei radicali di oggi, che vanno dietro niente meno che al “fumus persecutionis” della magistratura contro il parlamentare del Pdl Alfonso Papa.
Non c’erano i forconi nel lontano ’56, ma la crisi dell’agricoltura si faceva sentire pesantemente anche allora (il miracolo economico non aveva ancora dato i suoi frutti). Infatti, durante una serie di manifestazioni di braccianti agricoli e disoccupati, a Potenza, Comiso, Foggia, Barletta e a Partinico, a cui partecip
ò anche lo scrittore Danilo Dolci, arrestato durante gli scontri, la polizia sparava sulla folla, facendo centinaia di feriti e addirittura 3 morti. Anche allora, come è accaduto per tassisti, autotrasportatori e agricoltori, tutto finiva “con tanto rumore per nulla”, al massimo con una interrogazione parlamentare, poi riposta nei cassetto di qualche gruppo parlamentare che la esibiva come patentino al momento di chiedere il voto.
La grande industria di stato, per
ò, se la passava decisamente meglio. E non parliamo solamente della Fiat, costretta oggi ad andare a cercare altrove nuovi mercati, con conseguenze preoccupanti per i suoi dipendenti. L’Eni non lamentava alla stampa, nelle parole del suo presidente, possibili interruzioni di forniture del gas da riscaldamento. Nel ‘56 l’Eni accresceva addirittura la sua quota di mercato internazionale e acquistava il 20% di azioni di una compagnia petrolifera egiziana. Quanto all’Iri, lo stesso anno in cui veniva istituito il Ministero delle Partecipazioni sta tali, otteneva dal governo la concessione per la costruzione dell’Autostrada del Sole Milano-Napoli.
Prima gli autotrasportatori, per andare da Napoli a Milano, impiegavano due giorni di viaggio. La prima pietra della tratta Milano-Parma fu posta il 19 maggio del ‘56. Non che oggi un automobilista se la passi poi tanto meglio: qualcuno dir
à che è colpa dei cantieri, qualcun altro della mafia, qualcun altro ancora della neve, ma, alla fine dei conti, dopo circa 56 anni, quell’autostrada, caso unico al mondo, in molti punti sembra una strada sterrata e in tanti altri deve ancora essere perfino ultimata. E sempre nel ‘56, l’Iri incorporava anche la compagna aerea Alitalia: a quei tempi si trattava di una delle compagnia più all’avanguardia nel panorama europeo, oggi è messa seriamente in crisi dalle compagnie aree dei voli low cost ed è finita tra le ultime posizioni nella classifica internazionale per impatto ambientale.
Se prendiamo in rassegna il mondo del lavoro, nel ’56 proseguiva la morsa delle organizzazioni industriali che tenevano i sindacati fuori dalle fabbriche, ricorrendo alla polizia privata, e che si organizzavano, attraverso i servizi segreti deviati, con le prime schedature politiche dei lavoratori (come risulta dall’inchiesta parlamentare del 1955 intitolata “Condizioni di lavoro nelle fabbriche”). La corruzione e gli scandali nel mondo dell’edilizia non mancano i parallelismi: il ’56 non ha nulla da invidiare alla recente affittopoli, alla P3 o P4, e agli intrecci tra politica, economia nelle inchiesta sulla protezione civile, se
è vero che il settimanale “L’Espresso” denunciò con più di un articolo dal titolo Capitale corrotta = Nazione infetta (e chiaramente anche allora senza successo), l’Immobiliare Roma accusata di speculazione edilizia e violazione delle norme urbanistiche comunali.
Chiudiamo, giusto per non farci mancare nulla su questo paradossale ma, purtroppo, illuminante confronto tra l’Italia di oggi e quella del ’56, con l’immancabile razzismo. Pi
ù di cinquant’anni fa, come ricordano i nostri nonni, a Torino, in alcune fabbriche, gli operai meridionali, siciliani, calabresi, pugliesi e campani, venivano soprannominati “Napoli” dai settentrionali. A quei tempi, nel capoluogo piemontese si si diffondevano vergognosi cartelli con la scritta "affittasi, esclusi meridionali". Torino era la destinazione ideale dei tanti immigrati del profondo Sud che riempivano i cosiddetti “treni del sole”, quelli notturni, quelli stessi convogli che proprio oggi sono stati dismessi (causando il licenziamento di centinaia di addetti). Oggi, come risulta da una freschissima cronaca, in Veneto (per l’esattezza a Mirano in provincia di Venezia) un meridionale forse potrà affittare (rigorosamente “a nero”) una casa, ma non può assicurare la sua automobile. «Per colpa di disposizioni dell’assicurazione», ha gentilmente fatto presente la titolare dell’agenzia dicendo che non poteva mandare avanti la pratica ad un giovane di 26 anni di origini meridionali, ma residente nel veneziano ormai da tempo. Questo succede nell’Italia di oggi.

Fonte: Linkiesta

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